martedì 15 dicembre 2009

Palermo 17, Presentazione del volume "Stracchiolitudine" di Anna Mauro, Edizioni la Zisa, pp. 128, euro 12



Giovedì 17 dicembre 2009 ore 18.00 - Kursaal Kalhesa
Foro Umberto I, n°21 - Palermo

La Casa Editrice La Zisa e l'Associazione Radici di Sole
sono liete di presentare il libro

‘Stracchiolitudine’
di Anna Mauro


Interverranno:
On. Pino Apprendi - Deputato ARS Respons. Biblioteca Regionale
Simonetta Genova - Docente
Enza Garipoli - Dir. Resp. Siciliamillennium
Dora Piraino - Docente

Quadri animati a cura dell'Associazione Radici di Sole
con Rosalia Barravecchia nel ruolo di Franca

Sarà presente l'Autrice



«Accanto al mondo dei potenti e dei conformisti ne esiste un altro parallelo. È il mondo degli invisibili, di tutti coloro che non hanno voce in capitolo, eppure eccedono nei gesti, nella voce, nell’uso delle parole, come a volersi imporre su una società che tende ad ignorarli e che per loro nutre un profondo disprezzo.
Eppure basterebbe ascoltarli, lasciandosi avvolgere dalle atmosfere dei luoghi in cui vivono, storditi dai suoni e inebriati dagli odori, per comprendere quale profonda saggezza possa annidarsi in questi animi.
La consapevolezza dell’essere pedina troppo piccola per influenzare un sistema che sembra non tenere conto della loro esistenza e la saggezza esistenziale che pure riesce ad elevarsi al di sopra della politica e delle convenzioni sociali.
Franca, la “stracchiola”, è una delle invisibili: è la libertà dell’essere, è la voglia di andare oltre, è la voglia di essere altro. È voglia di riscatto.
La stracchiola è babbaluci che vuole fuggire dalla pentola per non fare la tragica fine dei suoi simili: agonizzare e morire lentamente in un soffritto con le corna di fuori.
Bene! Detto così “Stracchiolitudine” sembrerebbe uno di quei libri che se lo leggi e hai la depressione, vai di filato a ricoverarti in una clinica per malattie psichiatriche, oppure uno di quei polpettoni “inchiummusi” che ti spappola i neuroni cerebrali e che ti fa fare due… grandi quanto una casa.
Invece no! La protagonista, Franca è una donna spassosa, esilarante, che ai margini della società non ci vuole stare “manco scannata morta” e che per questo decide, alla pari di politici, assassini e presentatori televisivi, di scrivere il suo libro per averlo pubblicato. Un solo, piccolo neo: è semianalfabeta.
La mattina che la mia fantasia l’ha visualizzata, ho cominciato a sghignazzare sommessamente (erano le prime ore dell’alba e temevo un ricovero coatto), l’ho guardata fissa negli occhi e le ho intimato: Vai Franca, provaci!
Acchiana i muri lisci e niesci! Urla la tua verità. In fondo dici cose che molti vorrebbero dire e non troveranno mai il coraggio di dire.
E ricordati… “È meglio morire con una risata che essere ricacciata nella pentola per finire …sucata!”». (dall'Introduzione di Anna Mauro)
Nata e radicata a Palermo dal lontano 1957, dove vive ed insegna (per la precisione vive a casa sua ed insegna in un liceo cittadino) sostiene di essere l’unica eccezione che conferma la regola “L’ironia è delle persone intelligenti”. Si definisce scriborroica e femminopatica.

lunedì 14 dicembre 2009

Davide Romano, “Nella citta' opulenta. Microstorie di vita quotidiana”, Prefazione di Diego Novelli, La Zisa


Storie minime. Storie di uomini giudicati ''minori'' nelle colonne dei giornali, ma che possono rappresentare lo specchio di una comunita'. Fatti che meritano lo spazio di una ''breve'', ma che con Davide Romano diventano materia per il suo ''Nella citta' opulenta. Microstorie di vita quotidiana''. Il volume, con la prefazione di Diego ed edito da La Zisa/Koinè, racconta gli emarginati di Palermo, con le loro vite sconosciute che possono diventare note quando - per disperazione o per violenza repressa - si macchiano di qualche crimine piu' o meno grave. Romano ha tratto dalla cronaca degli ultimi cinque anni, pubblicata su varie testate, vicende che fotografano una realta', quella palermitana, nelle sue ombre e nelle sue luci, ''per ricordare ai disattenti che insieme alle vetrine illuminate ci sono anche zone estese di colpevole abbandono morale e materiale'', segmenti di vita vissuta che commuovono e irritano contemporaneamente. ''Sono trascorsi oltre trent' anni da un mio lungo soggiorno in Sicilia, inviato dal mio giornale, l' Unita' - scrive Novelli - dopo la lettura delle pagine di Romano sono rimasto profondamente colpito non solo dalla drammaticita' di queste microstorie di vita quotidiana che lui, con tanta sensibilita', ha raccolto, ma soprattutto dalle analogie con le storie con cui mi ero incontrato trent' anni prima, quasi che il tempo nella realta' siciliana non esista, si sia fermato''. ''Palermo - scrive ancora Novelli - vive le contraddizioni, le mode, i gusti, i drammi che vivono citta' come Roma, Milano, Torino, Parigi, Londra. Il dramma di un disoccupato che vuole buttarsi dal cornicione di un palazzo e' lo stesso in qualsiasi parte del mondo. Diverse ci fa capire l' autore sono le reazioni delle persone. E ce lo fa capire lasciando parlare gli uomini e le donne di questa sua amata e odiata citta', dando voce ai piu' deboli, schierandosi dalla loro parte''. Diciassette i capitoli del volume scritto dal giornalista freelance poco più che trentenne dedicati a ''I disperati della Noce''; ''Solo per amore''; ''Omosessualita' e fede''; ''Amore al citofono''; ''Cuore di boss''; ''Quando il prete s' innamora''; ''Scuole cattoliche e portatori di handicap''; ''Malacarne''; ''I sogni nel cassonetto''; ''Quel benedetto posto fisso''; ''La scoperta del mercato''; ''La mano dello scultore''; ''Una scuola di vita''; ''L' eremita delle Madonie''; ''Il coraggio di cambiare''; ''La pupara di Dio''; e ''Vita da squatters''.



DAVIDE ROMANO (Palermo, 6 ottobre 1971), giornalista, editore e scrittore. Ha scritto e scrive per numerose testate, tra le quali: Il Giornale di Sicilia, Il Mediterraneo, La Repubblica, Centonove, Antimafia2000, L’Ora, La Rinascita della Sinistra, Jesus, Avvenimenti, L’Inchiesta Sicilia, Narcomafie e Riforma. È stato anche fondatore e direttore responsabile del bimestrale di economia, politica e cultura Nuovo Mezzogiorno e del mensile della Funzione Pubblica Cgil Sicilia Forum 98. Ha pubblicato i volumi: “L’amore maldestro” (2001), “La linea d’orizzonte tra carne e Cielo” (2003), “La buriana e altri racconti” (2003), “Nella città opulenta. Microstorie di vita quotidiana”, Prefazione di Diego Novelli, (2003, 2004), “L’anima in tasca” (2004), “Piccola guida ai monasteri e ai conventi di Sicilia” (2005), “Il santo mendicante. Vita di Giuseppe Benedetto Labre” (2005), “Dicono di noi. Il Belpaese nella stampa estera” (2005), “La pagliuzza e la trave. Indagine sul cattolicesimo contemporaneo”, Presentazione di Marcelle Padovani, Prefazione di Anna La Rosa. Con un contributo di don Vitaliano della Sala (2007) e Girolamo Li Causi, “Terra di Frontiera. Una stagione politica in Sicilia 1944-1960”. A cura di Davide Romano. Presentazione di Italo Tripi. Prefazione di Oliviero Diliberto (2009).

Davide Romano, La buriana e altri racconti, (ed La Zisa, pagg. 88)


Sono piccole storie, giocate piu' filo del paradosso e del sarcasmo, che colgono momenti, aspetti ed esperienze che tutti abbiamo vissuto, almeno una volta, nel corso della nostra vita. Sei piccoli spaccati di vita quotidiana che sembrano riecheggiare l'ironia narrativa di Heinrich Boll e Stefano Benni o il caustico disincanto di Luis-Ferdinand Celine. Come, ad esempio, la vicenda del quadro, regalo di nozze ad una coppia di sposini da spot pubblicitario che decidono, non comprendendone il valore artistico, di regalare ad un conoscente antipatico. Un quadro che passera' poi di mano in mano sino a fare una fine indecorosa. Quasi una parabola laica dell'amore per il brutto e dell'insipienza dei nostri tempi. O quella, oltremodo attuale, della cartomante che, dietro un'improbabile coreografia, un eloquio altisonante e uno scoop imbonito ad uno sprovveduto giornalista, nasconde la sua vera arte di borseggiatrice. Ma c'anche la parodia del Potere sempre pronto a correre i cento metri delle dichiarazioni a raffica anche su fatti insignificanti che meriterebbero solo l'onore di poche righe. O la contraddizione dell'insegnante ligia al dovere e sinceramente compenetrata del suo ruolo sociale che respinge con sdegno la richiesta di una raccomandazione, non sapendo di essere anche lei debitrice per la sua carriera all' “interessamento” di un onorevole. C'e' soprattutto, in queste pagine (in particolare nel racconto Il viaggio ), l'insoddisfazione quasi brancatiana di vivere in una realta' provinciale e chiusa come quella siciliana. E, unitamente a questa, la voglia di fuggire lontano verso altre dimensioni culturali ed esistenziali, in terre che si presuppongono migliori. Ma i sogni, purtroppo, non sempre si avverano e comunque non per tutti. Rimane, ed ancora peggio, l'idealizzazione di una possibile alternativa. Una meravigliosa isola di Utopia relegata chissa' dove nel tempo e nello spazio. Ma quando ci si rende conto – ed e' questa amara consapevolezza, che in fondo attraversa tutto il libro, a colpire – che tra realta' immaginazione vi e' un muro invalicabile, altro non resta che lanciare uno sberleffo liberatorio al mondo intero (e anche a se stessi).



DAVIDE ROMANO (Palermo, 6 ottobre 1971), giornalista, editore e scrittore. Ha scritto e scrive per numerose testate, tra le quali: Il Giornale di Sicilia, Il Mediterraneo, La Repubblica, Centonove, Antimafia2000, L’Ora, La Rinascita della Sinistra, Jesus, Avvenimenti, L’Inchiesta Sicilia, Narcomafie e Riforma. È stato anche fondatore e direttore responsabile del bimestrale di economia, politica e cultura Nuovo Mezzogiorno e del mensile della Funzione Pubblica Cgil Sicilia Forum 98. Ha pubblicato i volumi: “L’amore maldestro” (2001), “La linea d’orizzonte tra carne e Cielo” (2003), “La buriana e altri racconti” (2003), “Nella città opulenta. Microstorie di vita quotidiana”, Prefazione di Diego Novelli, (2003, 2004), “L’anima in tasca” (2004), “Piccola guida ai monasteri e ai conventi di Sicilia” (2005), “Il santo mendicante. Vita di Giuseppe Benedetto Labre” (2005), “Dicono di noi. Il Belpaese nella stampa estera” (2005), “La pagliuzza e la trave. Indagine sul cattolicesimo contemporaneo”, Presentazione di Marcelle Padovani, Prefazione di Anna La Rosa. Con un contributo di don Vitaliano della Sala (2007) e Girolamo Li Causi, “Terra di Frontiera. Una stagione politica in Sicilia 1944-1960”. A cura di Davide Romano. Presentazione di Italo Tripi. Prefazione di Oliviero Diliberto (2009).

Opera/ Le trame dei libretti cosi' ingenue, assurde e paradossali (Edizioni La Zisa)


Roma, 11 DIC (Velino) - Storie ingenue, personaggi approssimativi, situazioni noiose. Leggere i libretti d'opera, prima di entrare a teatro, e' spesso impresa ostica e puo' provocare reazioni opposte a quelle immaginate dagli autori, tipo scoppi di ilarita' in occasioni che, al contrario, dovrebbero ispirare la piu' viva commozione. La scrittrice Cristina Bobbio, appassionata di opera e cresciuta in una famiglia di musicisti, ha cominciato da alcuni anni ad analizzare i testi dei libretti in maniera leggera e ironica rilevandone le incongruita' e accentuando nel contempo gli aspetti peculiari del melodramma, gli stessi che continuano ad appassionare milioni di cultori in tutte le parti del mondo. "Ho sempre lamentato l'incomprensibilita' dei libretti - spiega la scrittrice al VELINO -. Un problema che adesso e' stato risolto facendo scorrere i sottotitoli a teatro, ma che fino a pochi anni fa impediva alla maggior parte delle persone di capire cose stesse succedendo in scena". Da queste osservazioni e' nato il libro "Papagena, zuccherino mio.
Guida semiseria ai libretti d'opera" (La Zisa), in cui Bobbio ha riscritto a mo' di fiabe alcuni libretti d'opera restando il piu' possibile fedele alla trama. "Ho voluto scrivere racconti divertenti - dichiara -, sdrammatizzando e inserendo scenette umoristiche, ironia e tanti dialoghi specialmente nelle storie piu' tragiche".

A essere prese di mira soprattutto le opere drammatiche di Giuseppe Verdi. "Sono le piu' inconcepibili per logica e psicologia dei personaggi - evidenzia Bobbio -. Hanno trame assurde che solo la musica riesce a sublimare. Se isolassimo il libretto e la trama togliendo la musica, resterebbe un racconto buffo. Sono diversi gli episodi incongruenti da rilevare. Nel 'Trovatore' la zingara protagonista dell'opera, per vendicarsi del potente Conte che le aveva uccisa la madre mandandola sul rogo, si vendica rapendo il figlio piccolo del nobile e lo getta nel fuoco. Pero' si sbaglia e lancia tra le fiamme un altro neonato che stava tenendo in braccio che e' suo figlio.
Uno scambio di bambini che onestamente e' inconcepibile possa accadere". Assurdo, sottolinea Bobbio, anche il finale dell'"Aida". "Lei e Radames sono sepolti nella cripta, mentre di fuori Amneris piange e prega sulla tomba credendo che lui sia morto e invece si sta 'divertendo' pochi metri li' sotto". Ma la scrittrice mette alla berlina anche i personaggi delle opere verdiane. "Spesso sono ridicoli - afferma -. Penso ai comportamenti assurdi di Alfredo Germont de 'La Traviata' o a Radames che pare un pagliaccio se non addirittura un pallone gonfiato. Le donne vincono tranquillamente il confronto perche' fanno migliore figura ed escono meglio dalle trame".

A differenza di Verdi, Mozart difficilmente e' paradossale e assurdo. "I libretti dei lavori mozartiani filano - dichiara Bobbio -. Vi si trovano anche li' situazioni strane e poco normali, ma nel complesso le trame sono piu' logiche rispetto a quelle delle opere drammatiche verdiane. Almeno sono piu' coerenti e questo grazie al librettista Da Ponte". Per la scrittrice, un lavoro "assolutamente perfetto anche dal punto di vista del messaggio filosofico" e' "Il 'Flauto magico". "Ha una trama lineare, non ci sono incongruenze o sbavature - spiega -.
Anche la musica si potrebbe quasi ascoltare in mistico silenzio, in una stanza chiusa, senza vedere nulla. Pero' e' difficile da mettere in scena perche' e' un'opera molto complessa anche dal punto di vista intellettuale". Perche', nonostante queste "stranezze" nelle trame, il melodramma raccoglie da secoli un successo planetario? "E' merito dell'insieme, di quel cocktail di elementi che e' il teatro - risponde Bobbio -. Non bisogna isolare la musica dalle parole e dalla storia, perche' l'opera e' tutto questo e un elemento ha bisogno dell'altro. E infatti presentare, come spesso fanno, un'opera in forma di concerto, cioe' senza costumi, e' un'assurdita' perche' l'opera finisce per essere snaturata.
E' una forma d'arte che va svolta in teatro, o comunque ci deve essere un palcoscenico. Del resto nasce nel '500 con Monteverdi dal 'recitar cantando'. L'insieme di trama, libretto, musica, orchestra e costumi costituiscono l'opera - sottolinea la scrittrice -. Tutto l'assieme crea il fascino dell'opera. E questo fascino riesce a mascherare anche le situazioni piu' incongruenti generate da trame assurde e paradossali". (gat) 111926 DIC 09 NNNN

domenica 13 dicembre 2009

Recensione da “Il Giornale”: “I campieri di Cristo, mirabile affresco della Sicilia anni '50” di Mariateresa Conti


L'eterna lotta tra potenti e poveri nel nuovo romanzo del giornalista palermitano Nonuccio Anselmo. La guerra tra confraternite durante la Settimana santa diventa metafora della voglia di riscatto dei più deboli da tutti i soprusi.

Di chi è Gesù Cristo? Dei nobili che per blasone e tradizione da anni curano la deposizione del Venerdì Santo? O del popolo, che da quella cerimonia è sempre stato escluso e che finalmente trova il coraggio di rivendicare il proprio diritto, nel nome di un Cristo morto per tutti? E dove porta questa guerra del Cristo, in un paesino fine anni '50 dove ancora vivi sono gli echi della guerra del feudo, spenta nel sangue dai mafiosi legati a doppio filo ai signori del feudo?
È uno splendido affresco di una Sicilia antica e al tempo stesso immortale quello tratteggiato nel romanzo «I campieri di Cristo» del giornalista e scrittore Nonuccio Anselmo (edizioni La Zisa, 13 euro). Una Sicilia di provincia che Anselmo, una vita al Giornale di Sicilia del quale è stato caporedattore, ha descritto to già nei primi due suoi romanzi - «Farmacia Bisagna» e «I leoni d'oro» - e che ancora una volta offre molto da raccontare, se guardata con l'occhio attento del cronista che, appunto, osserva ciò che si offre alla sua vista.
Anche ne «I Campieri di Cristo» c'è un cronista che ha il sapore dell'antico storico: il maestro Brasi Ferrante, che dopo aver educato frotte di ragazzini, una volta andato in pensione, si dedica alla vera passione della sua vita, osservare e annotare, nel suo diario.
Ed è davvero un avvenimento storico quello che Brasi Ferrante annota nell'anno di grazia 1957: lo stravolgimento della tradizione che da anni si perpetua nella Settimana Santa, tradizione che prevede che la deposizione del Cristo morto sia appannaggio della Confraternita dei Bianchi. Sì, perché nell'anno di grazia 1957 accade che la Confraternita dei Rossi, che trova il suo capopolo in un giovane cresciuto a rabbia, lavoro e fatica, Luca Stellario, quel Cristo lo ruba, sotto il naso ai nobili, in uno storico Venerdì santo. Perché Cristo, almeno lui, è di tutti.
Il racconto si dipana snello, coinvolgente, tra le cronache del maestro Ferrante e l'azione vera e propria dei protagonisti, concentrata in pochi incalzanti giorni. Ne viene fuori un affresco mirabile, specie per l'attenzione che Anselmo, amante della storia e del folclore (ha scritto anche diversi saggi), dedica alla descrizione dei riti della Settimana santa, ancora molto sentiti in larga parte della Sicilia. Una descrizione non didascalica. I riti, attraverso i protagonisti del romanzo, vengono vissuti dall'interno. Con un finale amaro, un po' a sorpresa, che in fondo fa da corollario a tutta la vicenda.

lunedì 7 dicembre 2009

In libreria, Cristina Bobbio, “Papagena, zuccherino mio. Guida semiseria ai libretti d’opera”, ed. La Zisa, pp. 136, euro 9,90



Leggere i libretti d’opera, prima di entrare in teatro, può risultare un’impresa ostica e noiosa. Addirittura può suscitare reazioni opposte a quelle immaginate dagli autori, come scoppi prolungati di ilarità su personaggi e situazioni che, al contrario, dovrebbero ispirare la più viva commozione. Anche le storie che vi si raccontano sono spesso troppo ingenue, per tacere della psicologia dei personaggi, non di rado confusa e approssimativa. Ma la magia coinvolgente dell’opera lirica non si spiegherebbe, se non tenessimo conto della musica che accompagna il canto dei protagonisti.
Il libro di Cristina Bobbio affronta con leggerezza ed ironia i testi dei libretti, rilevandone le incongruità e accentuando nel contempo gli aspetti peculiari del melodramma, gli stessi che continuano ad appassionare milioni di cultori in tutte le parti del mondo.

Cristina Bobbio, genovese di nascita, ha collaborato alla rivista Urbs, Silva et Flumen dell’Accademia Urbense di Ovada (Alessandria) con articoli su Emanuele Borgatta, pianista e autore melodrammatico del primo Ottocento. Sulla stessa rivista è comparso un suo studio dedicato alla storia del teatro lirico di provincia. Ha pubblicato il romanzo breve “Tina e lo straniero, sei storie genovesi”, Genova, 2008.

giovedì 3 dicembre 2009

Arriva in libreria - Anna Mauro, "Stracchiolitudine", Edizioni la Zisa, pp. 128, euro 12


«Accanto al mondo dei potenti e dei conformisti ne esiste un altro parallelo. È il mondo degli invisibili, di tutti coloro che non hanno voce in capitolo, eppure eccedono nei gesti, nella voce, nell’uso delle parole, come a volersi imporre su una società che tende ad ignorarli e che per loro nutre un profondo disprezzo.
Eppure basterebbe ascoltarli, lasciandosi avvolgere dalle atmosfere dei luoghi in cui vivono, storditi dai suoni e inebriati dagli odori, per comprendere quale profonda saggezza possa annidarsi in questi animi.
La consapevolezza dell’essere pedina troppo piccola per influenzare un sistema che sembra non tenere conto della loro esistenza e la saggezza esistenziale che pure riesce ad elevarsi al di sopra della politica e delle convenzioni sociali.
Franca, la “stracchiola”, è una delle invisibili: è la libertà dell’essere, è la voglia di andare oltre, è la voglia di essere altro. È voglia di riscatto.
La stracchiola è babbaluci che vuole fuggire dalla pentola per non fare la tragica fine dei suoi simili: agonizzare e morire lentamente in un soffritto con le corna di fuori.
Bene! Detto così “Stracchiolitudine” sembrerebbe uno di quei libri che se lo leggi e hai la depressione, vai di filato a ricoverarti in una clinica per malattie psichiatriche, oppure uno di quei polpettoni “inchiummusi” che ti spappola i neuroni cerebrali e che ti fa fare due… grandi quanto una casa.
Invece no! La protagonista, Franca è una donna spassosa, esilarante, che ai margini della società non ci vuole stare “manco scannata morta” e che per questo decide, alla pari di politici, assassini e presentatori televisivi, di scrivere il suo libro per averlo pubblicato. Un solo, piccolo neo: è semianalfabeta.
La mattina che la mia fantasia l’ha visualizzata, ho cominciato a sghignazzare sommessamente (erano le prime ore dell’alba e temevo un ricovero coatto), l’ho guardata fissa negli occhi e le ho intimato: Vai Franca, provaci!
Acchiana i muri lisci e niesci! Urla la tua verità. In fondo dici cose che molti vorrebbero dire e non troveranno mai il coraggio di dire.
E ricordati… “È meglio morire con una risata che essere ricacciata nella pentola per finire …sucata!”». (dall'Introduzione di Anna Mauro)
Nata e radicata a Palermo dal lontano 1957, dove vive ed insegna (per la precisione vive a casa sua ed insegna in un liceo cittadino) sostiene di essere l’unica eccezione che conferma la regola “L’ironia è delle persone intelligenti”. Si definisce scriborroica e femminopatica.

lunedì 30 novembre 2009

Palermo 3 dicembre, Presentazione volume "Vincoli d'onore. Storie e uomini di mafia tra New York e Palermo" di Giuseppe Incandela, ed La Zisa



Giovedì 3 dicembre
ore 18,00
Libreria Broadway
di via Rosolino Pilo, 18
a Palermo
presentazione del libro di

Giuseppe Incandela
“Vincoli d’onore. Storie e uomini di mafia tra New York e Palermo”
ed. La Zisa, pp. 180, euro 12
http://www.lazisa.it/

Molte tragiche vicende criminali che nell’ultimo sessantennio hanno occupato le prime pagine dei notiziari non solo nazionali, trovano la loro origine nel rinnovato patto tra la mafia siciliana e quella americana siglato nei primi anni del secondo dopoguerra. Soprattutto il traffico degli stupefacenti, per gli ingenti profitti che esso procura, ha messo in crisi vecchi e consolidati assetti delinquenziali, provocando di conseguenza una lunga catena di omicidi, sia all’interno delle famiglie mafiose, che nei confronti delle componenti istituzionali più determinate nella lotta al crimine organizzato. Di volta in volta, l’alleanza tra le due mafie, nonostante le differenze strutturali che le contraddistinguono, è servita anche di valido supporto nelle fasi critiche che entrambe hanno attraversato. In ultimo, gli USA sono diventati terra di esilio dei boss fuggiti dalla Sicilia all’indomani della guerra scatenata tra i clan negli anni ‘80. Il paventato ritorno degli “scappati” nell’isola sta però determinando un nuovo scontro tra favorevoli e contrari, i cui sviluppi ulteriori al momento attuale non è facile prevedere.

Giuseppe Incandela vanta al suo attivo una lunga esperienza giornalistica iniziata quarant’anni fa sulle colonne del quotidiano palermitano L’Ora, e proseguita con la collaborazione alla sede palermitana dell’Agenzia Radiocor, diretta da Mauro De Mauro, a TVR Sicilia e al VideoGiornale. Attualmente conduce due rubriche sui canali del Centro Televisivo Palermitano. Tra le sue numerose pubblicazioni, si ricordano: Piero Gobetti e la Rivoluzione liberale (1961); I cattolici nella politica italiana dal 1919 al 1924 (1963); La politica delle chiacchiere (1966); Dalle strade alla storia (1966); Sospetti e veleni (1989); Gli anni che sconvolsero Palermo (2004); Il lungo fiume di sangue (2006); Anni Ottanta. Attacco della mafia allo Stato (2007); Morte di un Presidente. Inchiesta sul delitto Mattarella (2009).

I diritti d'autore del libro verranno devoluti all'associazione "Addiopizzo"

giovedì 26 novembre 2009

Palermo 27 novembre, Presentazione del volume di Rosario Norrito, OMBRE DI VETRO, La Zisa


Venerdì 27 novembre, alle ore 21,00, presso l'Associazione culturale e teatrale "LaTraccia" di via Porta di Castro n. 95, a Palermo, presentazione del libro "Ombre di vetro" di Rosario Norrito, edito dalla casa editrice La Zisa. Intervengono: l'autore, il giornalista Davide Romano e Rosanna Rumore (filosofa). A seguire breve spettacolo (estratto dal libro) dal titolo "Il non senso dell'oltre", regia di Rosaria Favarò. In scena: Rosaria Favarò, Eva Favarò e il sax di Michele Mazzola. A conclusione degustazione vini e buffet. Ingresso libero.

Il libro- “In fondo, tutta la filosofia è stata fatta da uomini che hanno tentato di superare o cancellare i confini posti da altri, ma con scarsi risultati, anzi, dopo vari tentativi, si sono ritrovati con voragini più profonde. Anche un epistemologo di prim’ordine come Popper si era arreso a questa fatalità, al punto di affermare che la scienza è un continuo abbattere confini per poi trovarsene altri da superare. Quanti giganti, che intrapresero il viaggio, sono tornati e hanno potuto raccontare cosa hanno visto? Ma dall’Oltre non vi è ritorno! Semmai qualcuno vi ha messo piede non lo sapremo mai. Se i filosofi possono insegnarci qualcosa è quello, appunto, di andare da un’altra parte per scoprire strade che non sono mai state battute, ma con prudenza perché, una volta imboccate… è finita!”.


Rosario Norrito, insegna filosofia e psicologia nei licei psicopedagogici. È stato conduttore di gruppi nel progetto “Comunicare educando & Educare comunicando” promosso dal l'Ufficio Scolastico Regionale della Sicilia. Esperto in metodologia didattica tiene corsi sulla mnemotecnica e sulle diverse strategie per un apprendimento efficace. Ha ottenuti diversi riconoscimenti in ambito pittorico e poetico. Nel concorso letterario “Città di Monza 2000” con l'opera La notte bianca è risultato tra i vincitori.

lunedì 23 novembre 2009

In libreria - Anna Mauro, “Stracchiolitudine”, Edizioni La Zisa, pp. 128, euro 12




Accanto al mondo dei potenti e dei conformisti ne esiste un altro parallelo. È il mondo degli invisibili, di tutti coloro che non hanno voce in capitolo, eppure eccedono nei gesti, nella voce, nell’uso delle parole, come a volersi imporre su una società che tende ad ignorarli e che per loro nutre un profondo disprezzo.
La protagonista, Franca, è una donna spassosa, esilarante, che ai margini della società non ci vuole stare “manco scannata morta” e che per questo decide, alla pari di politici, assassini e presentatori televisivi, di scrivere il suo libro per averlo pubblicato. Un solo, piccolo neo: è semianalfabeta...

Nata e radicata a Palermo dal lontano 1957, dove vive ed insegna (per la precisione vive a casa sua ed insegna in un liceo cittadino) sostiene di essere l’unica eccezione che conferma la regola “L’ironia è delle persone intelligenti”. Si definisce scriborroica e femminopatica.

mercoledì 18 novembre 2009

In libreria – Daniela Thomas, “Segni di vita”, Prefazione di Franco la Rosa , ed. la Zisa, pp. 160, euro 9,90


Daniela Thomas “ha fatto della lettura […] introspettiva – ha scritto Franco La Rosa nella Prefazione – il suo sottofondo ma nello stesso tempo anche la sua forza; […] ha abitato i meandri di una mente o di un inconscio spesso connotati di chiarezza e anche di incertezze, di propulsioni e di arresti, di fughe e di ritorni – e qui la sua straordinaria autentica umanità – […] da cui ha tratto sempre le essenze più profonde trasformandole in pietre preziose, luccicanti: quelle storie struggenti di una ricchezza e di una soavità profonda e leggera nello stesso tempo che hanno fatto delle sue righe una sorta di illuminazione, una accensione improvvisa, un insight, nel linguaggio della psicologia analitica. Una poesia, dunque, […] per questo mai costruita o artificiosa, mai troppo elaborata, mai siglata […] dalla funzione pensiero solo per compiacere gli altri o per sedurre; solo sussulti, solo nostalgie, solo struggimenti, solo emozioni tra le sue parole”.


Daniela Thomas nasce a Palermo il 21 dicembre 1960, giorno del solstizio d’inverno, proprio quando la notte è più lunga e buia, ma per questo più vicina all’alba di un nuovo giorno. Il padre, Pierre, con una borsa di studio arriva in Sicilia dalla sua terra, la Bretagna, alla fine degli anni ‘50: se ne innamora al punto da sceglierla come paese d’elezione. Coniugare gli opposti – giorno-notte, nord-sud, madre-padre, cielo-terra… – in un’alchimia esistenziale diventa così il filo che si dipana, come attraverso un labirinto, nella vita di Daniela, che ancora oggi ne segue l’affascinante percorso. Vive nella campagna di Monreale, tra una casa in muratura e una casetta in legno adagiata in mezzo a un giardino di agrumi e melograni, dove – fra animali e sculture – trasfonde a bambini e ragazzi l’arte dello studio.

martedì 10 novembre 2009

Giuseppe Incandela, "Vincoli d’onore. Storie e uomini di mafia tra New York e Palermo”, ed. La Zisa, pp. 180, euro 12


Molte tragiche vicende criminali che nell’ultimo sessantennio hanno occupato le prime pagine dei notiziari non solo nazionali, trovano la loro origine nel rinnovato patto tra la mafia siciliana e quella americana siglato nei primi anni del secondo dopoguerra. Soprattutto il traffico degli stupefacenti, per gli ingenti profitti che esso procura, ha messo in crisi vecchi e consolidati assetti delinquenziali, provocando di conseguenza una lunga catena di omicidi, sia all’interno delle famiglie mafiose, che nei confronti delle componenti istituzionali più determinate nella lotta al crimine organizzato. Di volta in volta, l’alleanza tra le due mafie, nonostante le differenze strutturali che le contraddistinguono, è servita anche di valido supporto nelle fasi critiche che entrambe hanno attraversato. In ultimo, gli USA sono diventati terra di esilio dei boss fuggiti dalla Sicilia all’indomani della guerra scatenata tra i clan negli anni ‘80. Il paventato ritorno degli “scappati” nell’isola sta però determinando un nuovo scontro tra favorevoli e contrari, i cui sviluppi ulteriori al momento attuale non è facile prevedere.

Giuseppe Incandela vanta al suo attivo una lunga esperienza giornalistica iniziata quarant’anni fa sulle colonne del quotidiano palermitano L’Ora, e proseguita con la collaborazione alla sede palermitana dell’Agenzia Radiocor, diretta da Mauro De Mauro, a TVR Sicilia e al VideoGiornale. Attualmente conduce due rubriche sui canali del Centro Televisivo Palermitano. Tra le sue numerose pubblicazioni, si ricordano: Piero Gobetti e la Rivoluzione liberale (1961); I cattolici nella politica italiana dal 1919 al 1924 (1963); La politica delle chiacchiere (1966); Dalle strade alla storia (1966); Sospetti e veleni (1989); Gli anni che sconvolsero Palermo (2004); Il lungo fiume di sangue (2006); Anni Ottanta. Attacco della mafia allo Stato (2007); Morte di un Presidente. Inchiesta sul delitto Mattarella (2009).

giovedì 5 novembre 2009

Palermo 6 novembre, Margherita Hack presenta il volume “Lucean le stelle. Cenni di storia dell’astronomia di Sicilia”, ed. La Zisa


Palermo 6 novembre, Margherita Hack presenta il volume “Lucean le stelle. Cenni di storia dell’astronomia di Sicilia”, Prefazione di Margherita Hack, (ed. La Zisa, pp. 224, euro 16)

Ore 17,30 La professoressa Hack presenterà il volume di Pippo Battaglia presso la libreria "Fetrinelli" di via Cavour n. 133 (tel. 091.781291 - fax. 091.320807).
Ore 21,00 L’illustre cattedratico consegnerà la targa “Giuseppe Piazzi” per la divulgazione scientifica al prof. Sebastiano Tusa. Nell’ambito delle stessa serata, dopo la presentazione del giornalista Davide Romano del volume di Pippo Battaglia, la Hack terrà una conferenza dal titolo: “Gli asteroidi e la scoperta del primo asteroide Cerere”. L'iniziativa avrà luogo presso l'Auditiorium della Rai Sicilia di viale Strasburgo, 19.

Il libro: “Lucean le stelle. Cenni di storia dell’astronomia di Sicilia”, Prefazione di Margherita Hack, (ed. La Zisa, pp. 224, euro 16)
A partire dal VI-V sec. a.C. sono stati numerosi gli scienziati siciliani che hanno dato un contributo notevolissimo alla conoscenza dell’universo, non di rado anticipando, con geniali intuizioni, ciò che successivamente è stato verificato con il supporto di apparecchi sofisticati. Basterebbe citare i nomi di Empedocle e Archimede per il mondo antico, e di G. Battista Hodierna per l’età moderna. Insieme ai nativi, altri astronomi italiani, chiamati a lavorare in Sicilia, come per es. Giuseppe Piazzi, hanno creato strutture, redatto progetti di ricerca e formato allievi di prim’ordine, segnando tappe fondamentali per la comprensione del cosmo. Tanto da poter affermare che, dalla fine del ‘700, esiste ed opera con continuità una scuola siciliana non inferiore a quelle operanti in altre parti d’Italia e nel mondo intero. Negli ultimi decenni il ruolo degli astrofisici siciliani è stato determinante nello studio dei raggi X e gamma in astronomia, in particolare sotto la guida e per impulso di eminenti personalità come Giuseppe Vaiana e Livio Scarsi. Il libro di Pippo Battaglia racconta, con un linguaggio chiaro, appassionante e puntuale, questa storia millenaria che fa onore all’intero popolo siciliano.

L'autore: Pippo Battaglia, giornalista, scrittore, nel 1993 ha fondato a Palermo la «Targa Giuseppe Piazzi», un premio internazionale per la ricerca e la divulgazione scientifica, di cui è presidente del Comitato Scientifico. Tra le diverse pubblicazioni, si ricordano: L’idea del Tempo (con Margherita Hack), Utet, Torino 2005 L’intelligenza Artificiale, Utet, Torino 2006; Leoluca Orlando racconta la mafia, Utet, Torino 2007; Orlando erzahtl die mafie, Herder Werlag, Freiburg 2008; C’è vita nell’universo (con Walter Ferreri), Lindau, Torino 2008.


Margherita Hack (Firenze, 12 giugno 1922) è un'astrofisica e divulgatrice scientifica italiana. Dopo aver compiuto gli studi presso il Liceo Classico "Galileo" di Firenze, si è laureata in fisica nel 1945 con una tesi di astrofisica sulle Cefeidi, realizzata sempre a Firenze presso l'osservatorio di Arcetri.
È stata professoressa ordinaria di astronomia dal 1964 al 1997 all'Università di Trieste, dove poi è passata nel ruolo di professore emerito dal 1998. Ha diretto l'Osservatorio Astronomico di Trieste dal 1964 al 1987, portandolo a rinomanza internazionale.
Membro delle più prestigiose società fisiche e astronomiche, Margherita Hack è stata anche direttore del Dipartimento di Astronomia dell'Università di Trieste dal 1985 al 1991 e dal 1994 al 1997. È un membro dell'Accademia Nazionale dei Lincei (socio nazionale nella classe di scienze fisiche matematiche e naturali; categoria seconda: astronomia, geodesia, geofisica e applicazioni; sezione A: Astronomia e applicazioni). Ha lavorato presso numerosi osservatori americani ed europei ed è stata per lungo tempo membro dei gruppi di lavoro dell'ESA e della NASA. In Italia, con un'intensa opera di promozione, ha ottenuto che la comunità astronomica italiana espandesse la sua attività nell'utilizzo di vari satelliti giungendo ad un livello di rinomanza internazionale.
Ha pubblicato oltre 250 lavori originali su riviste internazionali e numerosi libri sia divulgativi sia di livello universitario. Nel 1994 ha ricevuto la Targa Giuseppe Piazzi per la ricerca scientifica. Nel 1995 ha ricevuto il Premio Internazionale Cortina Ulisse per la divulgazione scientifica.
Margherita Hack nel 1978 fondò la rivista bimensile L'Astronomia il cui primo numero vide la luce nel novembre del 1979; successivamente, insieme con Corrado Lamberti, diresse la rivista di divulgazione scientifica e di cultura astronomica Le Stelle.
In segno di apprezzamento per il suo importante contributo, le è stato anche intitolato l'asteroide 8558 Hack.

venerdì 30 ottobre 2009

In libreria - “I campieri di Cristo” di Nonuccio Anselmo (Ed. La Zisa - pp.192 - euro 13,00)


Il romanzo - come gli altri due precedenti dello stesso autore ('Farmacia Bisagna' e 'I leoni d'oro') - si nutre delle suggestioni della provincia, di un altro mondo al crepuscolo, quello della fine degli anni Cinquanta del Novecento, che sta per essere cancellato dal boom economico e dal benessere. Sono comunque ancora anni duri, in cui - pur se ormai lontani - non sono stati dimenticati le lotte per la terra con l'occupazione dei feudi e il sangue dei capipopolo assassinati dalla mafia e dal potere rurale. Un potere che si identifica ancora nei nobili 'feudatari'. E sono proprio loro, in questo paesino annegato nel feudo, a gestire anche i riti della Passione e del Venerdi' santo, affidati alla loro confraternita, la compagnia dei Bianchi della Maddalena. In altri termini, sono anche i padroni di Cristo, della statua che ogni anno si va ad appendere alla croce, che non puo' essere toccata dai componenti delle altre confraternite di braccianti e artigiani. Cosi' si accende un altro scontro, perche' - sostengono questi ultimi - Cristo e' di tutti. Scontro che si concludera' con il 'furto' del Cristo da parte dei 'Rossi', i piu' accesi antagonisti dei 'Bianchi'. (Ansa)
Nonuccio Anselmo, giornalista professionista, dal 1971 ha legato la sua attività al Giornale di Sicilia, dove è stato redattore capo. Ha scritto diversi saggi di storia e di folklore e i romanzi Farmacia Bisagna (Palermo, 2000) e I leoni d’oro (Palermo, 2004).

lunedì 26 ottobre 2009

Palermo 29 ottobre, Tommaso Romano presenta ANALISI di Francesco Galioto


Giovedì 29 ottobre 2009
ore 18:00 Auditorium RAI
viale Strasburgo 19 - Palermo

Il prof. Tommaso Romano presenta la silloge di poesie

ANALISI
(Ed. La Zisa - Palermo)
di Francesco Galioto

Modera il giornalista Davide Romano

E’ presente l’autore

Segue rinfresco


Queste liriche di Francesco Galioto possiedono, secondo il giudizio di Salvatore Rizzo, “una forza evocativa potente […], il cui distillato è una nostalgia non struggente, amara semmai, come di grandi e piccoli valori che si sono perduti e che si dispera di ritrovare. A volte, però, è come se risorgessero, almeno nello spasimo della memoria, come se, grazie a un’inattesa resipiscenza, trovassero nuovamente la forza di dichiararsi, di proclamare il proprio diritto di cittadinanza in una terra desolata che pare non conoscere più sentimenti né regole. C’è, in questa Analisi poetica di Francesco Galioto, in parte scovata per caso dal passato […] il leit-motiv del bilancio, attraverso una riflessione esistenziale o la semplice osservazione quotidiana, […] il raffronto severo, tra il fosco e il nuvoloso […] tra ieri e oggi, il grumo che lascia nell’anima una piccola sconfitta forse senza possibilità di rivincita […], lo smarrimento verso cui fa scivolare lentamente la consapevolezza di una rotta ormai difficile, se non impossibile, da correggere”.

Francesco Galioto (Palermo 1948), impiegato in una Azienda municipalizzata cittadina, pubblicista, vanta una lunga esperienza teatrale come autore, regista e attore in diverse compagnie filodrammatiche. Direttore responsabile del periodico “Arenella News”, ha pubblicato il volume Il presepe nella grotta, che trae spunto da alcune proprie scoperte archeologiche.

giovedì 1 ottobre 2009

Premio Sakharov-UE, Sonia Alfano, Saviano, un europeo per la libertà d'espressione.



Bruxelles, 30 settempre 2009 - "Se rischiare la propria vita pur di parlare contro l'oppressione e battersi per le libertà civili, i valori e la giustizia sono requisiti per ricevere il premio Sakharov allora Roberto Saviano ne é più che meritevole." Ha dichiarato Sonia Alfano europarlamentare Idv nel gruppo ALDE, membro della Commissione per le Libertà civili, giustizia e affari interni durante la sua presentazione della candidatura di Roberto Saviano oggi in Parlamento.

“Auspico che quest'anno - ha aggiunto l'europarlamentare Idv - il Parlamento europeo scelga di conferire il premio Sakharov, per la prima volta dalla sua istituzione, ad un cittadino dell'UE perché ahimè ancora nei nostri confini si conoscono le atrocità che ne hanno ispirato l'assegnazione ".

“Soprattutto – ha continuato - per dare speranza ai tanti giovani che meritano un presente ed un futuro diverso, come Monica che mi ha inviato una commovente lettera, diretta a tutto il Parlamento che vorrei condividere con voi”.

“Gentili Onorevoli,

mi chiamo Monica ed ho 13 anni, vivo in Sicilia e sono cresciuta con l´immagine della Sicilia e del Sud Italia perennemente associata alla mafia. In realtà, io la mafia non l´ho mai vista però mi è capitato di sentirne parlare, di guardare film e trasmissioni in tv che parlavano non solo della mafia ma soprattutto delle persone uccise dai mafiosi. Di solito quando qualcuno viene ucciso tutta l´Italia si commuove ma subito dopo i funerali tutti sembrano dimenticare ciò che è accaduto. A scuola una mia professoressa mi ha detto che in Sicilia siamo abituati a queste cose per cui non ci si sorprende più. Io mi chiedo come ci si possa abituare alla cattiveria ed al terrore. Tre anni fa mia madre ha comprato Gomorra, il libro scritto da Saviano; ma io non l’ho letto. Lo scorso anno al cinema ho visto il film ispirato al libro e allora mi sono incuriosita e ho voluto leggere il libro. Sono rimasta molto colpita quando ho saputo che Roberto, dopo aver scritto quel libro è stato per sempre condannato a morte dalla camorra, vive la sua vita nascondendosi e non potrà mai avere una vita normale. Ha 30 anni, ma le uniche persone con cui sta dividendo la sua vita, le sue paure e le sue emozioni sono gli agenti della sua scorta. Mi chiedo come possa essere possibile che a nascondersi debba essere lui e non i mafiosi che vogliono ucciderlo. Spero che voi vogliate non premiare Roberto Saviano, ma dare a noi giovani una speranza ed un segnale forte. Se Saviano vincerà il Sakharov, noi giovani avremo vinto una battaglia straordinaria contro la mafia e per una volta la gabbia nella quale vive Saviano potrà aprirsi per accogliere il grido di speranza di tutti quanti noi. Spero davvero che Saviano possa un giorno vivere tranquillamente e possa avere una vita normale, sposarsi, avere dei figli e anche dei nipoti. Spero che quando sarà anziano potrà accompagnare i suoi nipoti a scuola. Io sono la nipote di uno degli 8 giornalisti uccisi dalla mafia per le sue indagini giornalistiche e non ho mai conosciuto mio nonno. Voi onorevoli in questo momento con la vostra decisione potreste aiutare Saviano ad uscire dall’angolo buio in cui la camorra lo ha costretto a vivere, farlo tornare a sperare e farci sperare che finalmente presto qualcosa possa davvero cambiare”.

venerdì 18 settembre 2009

Dino Paternostro, LE STELLE IN UN PUGNO. Il sogno di Placido Rizzotto e dei contadini di Corleone, La Zisa, Palermo, pp.144


Sessant’anni fa, a Corleone, la feroce mafia del feudo assassinava Placido Rizzotto, segretario della Camera del Lavoro, che guidava i contadini nelle lotte per la terra. Rizzotto fu il 35° sindacalista della Cgil a cadere nella lotta antimafia di quell'immediato dopoguerra siciliano. Il caso volle che proprio a Corleone, l’anno successivo, su sponde diverse, ma comuni nell'impegno per la legalità e la costruzione dello Stato democratico, si trovassero impegnati due uomini ai quali l'Italia onesta deve molto: il capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e il giovane studente comunista Pio La Torre. Due uomini, che anni dopo sarebbero stati accomunati dallo stesso tragico destino: entrambi trucidati da quella Cosa Nostra “corleonese”, che aveva ormai conquistato Palermo e la Sicilia. Se oggi lo Stato democratico registra notevoli successi nella lotta contro la mafia, arrestando “eterni” latitanti come Bernardo Provenzano e Salvatore Lo Piccolo, aiutando gli imprenditori che si ribellano al “pizzo” e sostenendo le cooperative di giovani che coltivano le terre confiscati ai boss, il merito va anche a personaggi come Placido Rizzotto, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Pio La Torre, che, in tempi e con strumenti diversi, indicarono la strada per resistere alla mafia ed individuarono gli strumenti per sconfiggerla.

Dino Paternostro (Corleone, 1952), direttore del periodico on-line Città Nuove e segretario della Camera del lavoro di Corleone, da anni collabora con il quotidiano “La Sicilia”, dove cura una pagina monografica settimanale. Collabora con le riviste Narcomafie e Rassegna sindacale. Tra le sue pubblicazioni: A pugni nudi. Placido Rizzotto e le lotte popolari a Corleone nel secondo dopoguerra (Palermo, La Zisa, 1992); L’antimafia sconosciuta. Corleone 1893-1993 (Palermo, La Zisa, 1994); La spada e la croce. Fra Bernardo da Corleone (Palermo, Adarte, 2000); I Corleonesi. Storia dei golpisti di Cosa Nostra (Roma, L’Unità, 2005). Per il suo impegno sociale e civile, nel 2003 gli è stata conferita la Targa Falcone e quest’anno la Targa speciale “Mario Francese”.

mercoledì 16 settembre 2009

LIBRI: DAN BROWN, 7.5 MILIONI DI COPIE PER 'THE LOST SYMBOL' =




E' USCITO OGGI IN USA E GB IL THRILLER CHE PARLA DELLA MASSONERIA

L'attesa e' finita: a sei anni di distanza da 'Il Codice Da Vinci' (81 milioni di copie vendute nel mondo con traduzioni in 51 lingue), e' arrivato oggi nelle librerie di tutto il mondo di lingua inglese il nuovo romanzo thriller dello scrittore statunitense Dan Brown, ambientato nell'America della massoneria. 'The Lost Symbol' (Il simbolo perduto) e' stato pubblicato in contemporanea negli Stati Uniti, in Canada e in Gran Bretagna: e' stata stampata una prima tiratura di 6,5 milioni di copie per il Nord America, a cui si aggiunge un milione di esemplari per il mercato del Regno Unito.

In traduzione italiana l'annunciato bestseller uscira' da Mondadori entro la fine del 2009, cosi' come accadra' per altre venti lingue. Il romanzo e' lungo 509 pagine ed e' pubblicato nell'edizione americana dall'editore Doubleday, un marchio del colosso Random House, e per la versione britannica da Transworld, una branca della stessa Random House.

Teschi umani pieni di liquido rosso sangue, un misterioso personaggio tatuato dalla testa ai piedi, chiamato Mal'akh, la ricerca di un importantis­simo documento segreto, tra Washington e le piramidi di Giza, in Egitto. Sono questi gli 'ingredienti' dell'apertura di "Il simbolo perduto", ambientato a Washington, dove il protagonista e' ancora una volta il dinamico professor Robert Langdon dell'Universita' di Harvard (nel 'Codice da Vinci' aveva indagato sull'Opus Dei e i misteri della vita di Gesu'), esperto in crittografia: la storia si svolge nel corso di sole 12 ore, con documenti da decifrare, insospettabili tranelli, oscuri e inquietanti misteri, Cia, giuramenti di fedelta' massonici e intrighi di potere.

Il professor Robert Langdon, che non ama la cravatta e indossa maglie a collo alto sotto eleganti giacche di tweed, dovra' risolvere in appena 12 ore un intricato giallo dove figurano strategie massoniche e codici della Cia. Langdon deve sventare a tutti i costi un pericolosissimo complotto, visto che in caso contrario il destino dell'intero pianeta potrebbe essere a rischio dato che in palio c'e' il controllo di un pittogramma cifrato impresso in maniera indelebile sulla 'Chiave di Salomone'. Questo misterioso oggetto evocherebbe infatti 'il potere del leggendario re d'Israele di controllare e scatenare i demoni'.

Dopo Parigi, Londra e Roma, Dan Brown ha scelto dunque Washington, citta' pervasa gia' nella sua stessa architettura e pianificazione urbanistica dal simbolismo massonico, come nuovo set del sequel del 'Codice Da Vinci'.

'The Lost Symbol' si apre con Lan­gdon che si sveglia di botto da un incu­bo in cui, bambino, e' assieme al pa­dre in un ascensore della torre Eiffel in caduta libera. In realta' il professore di Harvard sta volando a Washington, dove e' stato chiamato dal potentissimo Peter So­lomon, un filantropo e scienziato. Ma l'invito a Washington si rivelera' ben presto un tranello...Una delle scene iniziali di 'The Lost Symbol' e' ambientata nella casa del Tempio del consiglio supremo del 33esimo grado del rito scozzese antico e ac­cettato, a poche centinaia di metri dalla Casa Bian­ca. Qui un uomo sta per prestare giura­mento di fedelta' - per essere ammes­so al piu' alto rango della massone­ria internazionale - bevendo da un teschio un liquido rosso sangue.

Per contribuire ad accrescere l'attenzione intorno all'uscita del romanzo, il 'Washington Post' ha offerto ai lettori una mappa dei principali siti massonici della capitale, suggerendo i luoghi 'segreti' in cui si nuovera' Langdon: dal Campidoglio all'Obelisco, dalla Casa Bianca fino al Masonic House of the Temple sulla 16/a strada. 'Con il romanzo di Dan Brown pensiamo di poter triplicare i visitatori, che ad oggi sono 10.000 all'anno', ha commentato la direttrice della 'casa dei massoni', Heather Calloway.
'Siamo convinti che il nuovo libro potra' dare una spinta al turismo senza precedenti', ha aggiunto Calloway.

mercoledì 2 settembre 2009

Verdiana Catanzaro, “J e V. L'eroe e la principessa”, La Zisa, Palermo, pp 352, euro 17


Il regno della magia è un mondo parallelo a quello umano in cui si disputa l’eterna lotta tra il bene e il male. Nel giorno del suo sedicesimo compleanno a Jason viene rilevato di appartenere a quel regno incantato. Da quando scopre la sua vera natura, cioè quella di essere un mago, la sua vita cambia completamente. Inizia per lui una trascinante avventura con incantesimi, streghe e ippogrifi, dove i buoni sentimenti come l’amore e l’amicizia trovano un posto fondamentale nelle vicende che vive
Verdiana Catanzaro è nata a Palermo diciotto anni fa e questo è il suo primo romanzo fantasy.

giovedì 27 agosto 2009

Maria La Corte, “Caste confessioni su presunti atti impuri. Poesie erotiche”, La Zisa-Palermo


Maria La Corte, “Caste confessioni su presunti atti impuri. Poesie erotiche”, La Zisa-Palermo, pp. 96, euro 9.90 (ISBN 978-88-95709-25-3)

Lussuria, furia, malinconia…
I versi proibiti di una ragazza dei nostri giorni…

“Caste confessioni su presunti atti impuri”, è una raccolta di stralci di vita, amore, passione e dolore. Un’opera disegnata a violente pennellate, dai toni contrastanti, che si rincorrono furiose tra le pagine, fondendosi e confondendosi, dando vita così ad un lirismo dal colore senza eguali: rosso intenso come l’amore, viola come il proibito, giallo come l’energia, grigio come l’attesa, nero come il dolore. Questo, l’arcobaleno di sensazioni che viene fuori dalle poesie di Maria La Corte: poesie scritte con lussuria e delicatezza, poesie di ardore e indugio, di furia e malinconia, poesie calde ma anche, a volte, così sapientemente raggelanti.

Maria La Corte è nata e vive a Palermo. Ha studiato pittura presso l’Accademia delle Belle Arti di Palermo dove ha conseguito la laurea. Nella vita, oltre dipingere e scrivere, ama leggere, fotografare e…

martedì 25 agosto 2009

LIBRI: VELTRONI RACCONTA 'NOI' INFLUENZATI DALLA STORIA


NELLE LIBRERIE A GIORNI NUOVO 'ROMANZO POLITICO, IN SENSO ETICO' (di Paolo Petroni). (ANSA) Quattro epoche, quatto giovani personaggi e storie, quattro parti per descrivere quattro Italie tra il 1943 e il 2025: sono le circa 400 pagine del nuovo romanzo di Walter Veltroni, 'Noi', ambientato tra il passato e il futuro, evitando di parlare del presente, e che Rizzoli manda in libreria la prossima settimana.
L'autore, che ha raccontato di averlo scritto in gran parte di getto dopo le sue dimissioni dalla segreteria del Pd, lo ha definito 'Un romanzo politico, per il suo forte significato etico' mosso dai valori e i sentimenti dai quali Veltroni ha sempre detto di farsi guidare.
Ufficialmente lo presentera' lui stesso pubblicamente giovedi' 27 agosto a San Gimignano (Siena), dove si svolge la seconda parte di 'Noi', quella ambientata nel 1963, l'anno della morte di Papa Giovanni XXIII, dell'assassinio di John Kennedy e anche del primo governo di centro sinistra.
Da sempre convinto che l'esistenza di ogni individuo acquisti senso vero solo nel rapporto con gli altri, nel sentirsi parte della societa', protagonisti delle quattro parti sono quattro bambini appena adolescenti, quattro diverse generazioni della stessa famiglia, le cui vite vengono influenzate dalla storia, dal vivere le vicende del loro tempo. E naturalmente, specie per il secondo, il tredicenne Andrea (che ha poco piu' degli anni che aveva Veltroni nel 1963), che attraversa in un Maggiolino decappottabile l'Italia del boom, sembrerebbe piu' forte la presenza di elementi autobiografici.
Segni della storia della sua famiglia ce ne sono pero' vari, a cominciare da quel 1943 scelto per la prima parte, ambientata a Roma nell'anno in cui il nonno di Walter venne denunciato da un negoziante e portato dalle SS a Via Tasso. Certo e' anche l'anno della deportazione nazista degli ebrei romani dal ghetto, dello sconvolgimento segnato dal 25 luglio e poi dell'8 settembre, e del bombardamento raccontato dal quattordicenne Giovanni di San Lorenzo, che e' l'apertura del romanzo (stesso quartiere dove inizia anche 'La storia' di Elsa Morante, che ricordiamo non a caso con le vicende di Nino e del piccolo Useppe). La terza parte invece ci porta con l'undicenne Luca nel 1980, anno esemplare di scandali e misteri, dal calcioscommesse al aereo caduto a Ustica, dalla strage alla stazione di Bologna all'assassinio di Walter Tobagi, oltre che della morte di John Lennon e il terremoto in Irpinia. Un quadro a presagire, in fondo, la crisi istituzionale della prima repubblica da li' a 10 anni. Ma la grande attesa e' per la giovane Nina della quarta parte, visto che Veltroni ha deciso di non soffermarsi sul presente, temendo anche letture strumentali, e guarda invece al 2025, provando a figurarsi come sara' il nostro paese la politica tra 15 anni, a quale velocita' si svolgera' la vita di tutti, col rischio di perdere la memoria, di non avere il tempo per riflettere.
Un impianto molto piu' ambizioso e metaforico, con questo sguardo sulla nostra storia e riflessione sulla nostra identita', dei suoi due libri di narrativa precedenti, 'Senza Patricio' del 2004 (cinque racconti, 70 mila copie vendute) e 'La scoperta dell'alba' del 2006 (romanzo che ha raggiunto le 300 mila copie ed e' tradotto in sette lingue).

lunedì 24 agosto 2009

In libreria - Alessandrina De Rubeis, LA CITTÀ NEL CUORE, La Zisa, pp. 64 euro 10,00


Il libro: La «Città nel cuore» è una silloge di poesie dedicate alla città di Palermo e ad altre località limitrofe. Essa rappresenta il diario di tre diverse età della vita della protagonista, divisa tra il paese di origine, nel tessuto familiare, e la Sicilia, nella condizione di ospite della famiglia materna. I componimenti si suddividono in tre sezioni corrispondenti alla fanciullezza, all’adolescenza, alla maturità. Nella prima, che comprende nove poesie, sono evidenti esperienze ed emozioni del viaggio al Sud e della permanenza nella città di Palermo. Chiude la sezione la poesia Un amico vero che, insieme con Viaggio al Sud, parla del distacco forzato dagli affetti, dell’ansia per l’ignoto e della capacità di adattamento, propria dei bambini, anche alle situazioni di sofferenza. Significativi in tal senso sono i versi di Viaggio al Sud:I pensieri / si affollavano nella mente / come gli scompartimenti / di quel treno / a ogni stazione. E ancora: Bello il Sud / misterioso e profondo / come due occhi tristi. Negli ultimi versi di Un amico vero: Tenero piccolo ciuchino / solo il tuo era un ostinato bene si ha la proiezione dei sentimenti della bambina nell’amico ciuchino, entrambi accomunati dall’ostinazione nel ricercare affetto. Nella stessa poesia si ritrova anche l’esigenza di una situazione stabile che, tuttavia, svanisce ogni qualvolta gli adulti decidono il cambio di scena: le sirene emisero il canto / e fu per me tempo di ripartire. Nella sezione, contrassegnata da due eventi ben precisi, l’arrivo in città e la partenza da essa, si trovano poesie nelle quali sono descritti il tessuto sociale del tempo e il susseguirsi di figure rappresentative del luogo, insieme con le tradizioni, i costumi e i lavori dell’antico e popoloso quartiere dell’Albergheria, il cuore della città di Palermo.Su tutto e tutti si staglia la figura dello Zù Pe’, il nonno, nella sua umile condizione sociale che, ricevendo dalla nipote ammirazione e affetto, ritrova il riscatto personale e si prodiga nell’ insegnamento delle usanze e della lingua siciliana. La seconda sezione, che comprende diciassette poesie, inizia con Pallavicino 1957, dedicata alla compagna di banco che viene colpita dalla tragedia della sparizione del padre e del suo drammatico ritrovamento dopo lunghe ricerche. Il motivo della sofferenza, che accomuna le due compagne, raggiunge il suo apice quando nella famiglia della protagonista nasce l’ultimogenito. E ne Il dono dei morti, prendendo spunto dal regalo ricevuto, ma non desiderato, hanno libero sfogo la nostalgia per il paese lontano e il desiderio di ritornare a casa, desiderio che viene stroncato quando si convince che il posto da lei lasciato vuoto è stato rimpiazzato. Nei versi: – e origliò, trattenendo il respiro, ascoltò una nenia nuova e una culla / poi più nulla/ e decise di partire – c’è la determinazione a troncare col passato e a volersi stabilire definitivamente a Palermo.Tutta la sezione è dominata dalla città e dal magico intreccio di architetture, vegetazione e vissuto: dalle zone della Cattedrale e di Villa Bonanno, percorse ogni giorno a piedi per la frequentazione della scuola media, al monte Pellegrino, a Mondello, alla Favorita e al Villaggio Ruffini coi verdi e rigogliosi orti di Partanna. Sono questi gli anni delle Zàgare, delle gite estive nei luoghi suggestivi e storici della Sicilia, dello stare insieme con gli amici, delle lunghe passeggiate in bicicletta, della riflessione sui mali che affliggono la popolazione e sulle paure ad essi connesse. Nelle poesie Su Montelepre, Calatafimi 1960, Rossa Terra sono espressi i temi sociali, già evidenziati nella prima poesia della silloge, Viaggio al Sud. Solo dagli orti ancora d’oro può essere alimentata la speranza di vedere arrestata la cementificazione selvaggia e, con essa, l’illegalità. Palermo fortunatamente è anche altro e col suo fascino è divenuta ormai la sua città.Il passato, purtroppo, è in agguato e nella poesia La città nel cuore c’è come un presentimento: Quella città abitava il suo cuore / come una casa bifamiliare. Due famiglie! E quando, facendo appello ai propri diritti, quella d’origine impone il rientro definitivo a casa, i ritorni in Sicilia diventano sporadici e i soggiorni brevi. Nella terza sezione di dieci poesie, Il viaggio, uno degli ultimi, riaccende tutte le emozioni e lascia libero sfogo all’amore profondo che riesce a vedere nel mare il cielo, negli aranceti il sole: il cielo appare capovolto / sceso è anche il sole / e bacia la terra di Sicilia. E il sole, che in Villa Bonanno “giocava con lei a nascondino” e “la vedeva crescere tra luci e ombre”, è nuovamente suo complice nel bacio di entrambi alla terra che più amano. Molti affetti non sono più, ma dalle fotografie sulle tombe riaffiorano i ricordi, nitidi, indelebili. Il tempo non ha guarito le ferite dell’ennesimo distacco, sicché esse cercano rifugio tra gli oggetti antichi e polverosi di via Papireto, u Papiritu, il mercato delle pulci: essere una pulce per rimanere tra le cose di una volta protetta dal colore scuro / che sapientemente ripara / dalle aggressive tonalità del moderno.Nelle ultime poesie si percepiscono chiaramente la forza di un legame che non può avere mai fine e il desiderio di voler portare all’infinito colori, profumi e sapori di Sicilia.


L’autrice: Alessandrina De Rubeis ha pubblicato poesie in varie raccolte antologiche. Per l’Aletti Editore di Guidonia (Rm) è inserita in Antologia, vol. III, giugno 2003; Enciclopedia I Edizione, dicembre 2003; Antologia, giugno, luglio e dicembre 2004; Antologia, dicembre 2005. Per l’Associazione “Poesie tra le note” di Supino (Fr) è inserita nelle Raccolte tematiche della 2a-3a-4a- 5a Rassegna (2004, 2005, 2006, 2007). Per il Premio Nazionale di Poesia “Quadrifoglio” Città di Pontecorvo (Fr) è inserita nelle raccolte antologiche del 2004 e 2005. Per il Premio Internazionale di Poesia Riviera di Ulisse “Memorial Gennaro Sparagna” di Minturno (Lt) è inserita nelle Antologie delle poesie finaliste del 2006 e 2007. Ha vinto il 3° premio nel 2004 e il 1° premio nel 2005 partecipando al Concorso Poetico a tema per la Festa del Ss.mo Crocifisso di Isola del Liri (Fr). Ha ricevuto la “menzione speciale” nel I Concorso di Poesie “Isidoro Fogazzo e Giuseppe Grasso” indetto nel 2002 dalla U.T.E.E. e dal Liceo Scientifico Benedetto Croce di Palermo. Ha pubblicato articoli di storia sulla rivista di Storia del Lazio Meridionale “Studi Cassinati” e articoli su tradizioni e antichi mestieri sul periodico “Il Cronista” di Piedimonte San Germano (Fr). Per conto dell’Istituto di Storia del Risorgimento Italiano, Comitato Provinciale di Frosinone, ha pubblicato nel 2005 “Scuola e Istruzione in Valle di Comino nel XIX secolo”. Vive a San Donato Val di Comino (FR), dove insegna.

giovedì 20 agosto 2009

LIBRI: UN PUDICO BEIGBEDER NARRA FINE ANNI DI FESTINI


ESCE IN FRANCIA 'UN ROMAN FRANCAIS', MOLTO INTROSPETTIVO (di Aurora Bergamini) (ANSA) - PARIGI, 20 AGO - Sono finiti i tempi delle feste fino all'alba, del tourbillon di donne, alcol, droga e scandali: il nuovo Frederic Beigbeder, l'autore francese di 'Lire 26.900' e 'L'amore dura tre anni', con 'Un roman francais' - appena uscito in Francia - e' diventato introspettivo, meno aggressivo, piu' sofisticato, persino malinconico e pudico a modo suo.
Lo scrittore, 43 anni, noto per essere un provocatore, per la sua capacita' di spaccare l'opinione pubblica su vasti temi a partire da spunti autobiografici, questa volta fa un'analisi psicologica lucida della sua adolescenza, 'una litania di amori muti, un mix di dolore inasprito e di desiderio sprecato', e della vita in famiglia, che definisce 'un susseguirsi di pranzi depressivi dove ciascuno ripete gli stessi aneddoti umilianti'.
Beigbeder parla dei suoi genitori, di sua madre 'con i capelli fini e biondi, gli occhi chiari' che lo ha chiamato 'Frederic come il protagonista de 'L'educazione sentimentale', che era un fallito', e di suo padre 'magro e ricco', e accenna alle rivalita' con suo fratello Charles, diventato uno dei dirigenti del Medef, la Confindustria francese.
'Non capisco - scrive l'autore - quelli che considerano la famiglia come un rifugio quando invece e' il covo delle paure piu' profonde'.
Il libro e' anche lo spunto per fare un'attenta osservazione sulla fine della grande borghesia, sulla Francia degli anni dell'ex presidente Valery Giscard d'Estaing, sul sistema giudiziario francese 'brutale e vetusto'.
In particolare quattro pagine del suo romanzo piene di insulti al procuratore della repubblica di Parigi, Jean-Claude Marin, sono state addirittura modificate poco prima della pubblicazione definitiva per decisione del presidente della casa editrice Grasset, Olivier Nora, con il consenso dell'autore, per non rischiare conseguenze giudiziarie per diffamazione.
Beigbeder, nel libro, considera Marin responsabile del suo prolungato 'soggiorno' in carcere la sera del 29 gennaio 2008, quando fu arrestato dalla polizia perche' trovato a sniffare cocaina sul cofano di un'auto in centro a Parigi con un amico.
'Non e' Marin che mi interessa - ha spiegato poi l'autore - e' la brutalita' del sistema giudiziario francese, e' vetusto, la detenzione e' scandalosa, le carceri sono sovraffollate'.
Quella notte fu rinchiuso in una cella 'fredda e umida' del VII arrondissement, tra i piu' chic della capitale francese, grande appena '2 metri quadrati con i muri imbrattati sporchi di sangue secco, con la puzza di sudore e di vomito' che gli impediva di prendere sonno.
Senza carta e penna, in compagnia forzata di uno scippatore e di uno schizofrenico ubriaco, e' da qui che ha cominciato a scrivere il suo 'roman francais', nella sua testa. E' da qui che e' diventato un 'nuovo Beigbeder'. (ANSA).

Bibbia, in uscita "Quello che non capivo" di Bruno Rondini


Roma, 20 AGO (Velino) - Con "Quello che non capivo", Bruno Rondini ci guida in uno dei cammini piu' difficili e straordinari per un cristiano: quello verso il Signore. Con l'adeguatezza di un maestro e la genuinita' di uno studente - si legge nel comunicato di presentazione della casa editrice, La Zisa -, prende per mano il lettore e lo accompagna attraverso le pagine della Bibbia, cercando di illuminare tutti noi su tutto cio' che, forse, "non avevamo ancora capito". L'autore ci apre alla riflessione, in particolare, sulle similitudini del Libro Sacro, spianandoci quella strada affollata di dilemmi, interrogativi irrisolti e interpretazioni incerte, che e' la strada della dottrina biblica. Regalandoci con quest'opera la riscoperta della Parola di Dio, senza intermediari, nuda e diretta, e soprattutto ancora, dopo duemila anni, cosi' attuale. Bruno Rondini e' nato a Marino (Roma) nel 1956 e vive a Pomigliano d'Arco (Napoli). Laureato in Ingegneria, svolge attivita' di progettazione per apparecchi di sollevamento presso la societa' G.C.sPa di cui e' dirigente. Fa parte della Chiesa evangelica apostolica della comunita' di Ponticelli a Napoli.
(com/ban) 201226 AGO 09 NNNN

giovedì 30 luglio 2009

Manlio Piazza, Cappotto blu, La Zisa, Palermo, pp 160, euro 10

«La vita di un uomo è circolare e consequenziale, va in due dimensioni, segue una retta infinita e al contempo disegna nello spazio una circonferenza, infatti, c'è sempre un nesso in quello che facciamo, ma ogni vira ha qualcosa di unico e raro che andrebbe comunque raccontato a prescindere dal resto degli altri giorni». da questa idea nasce Cappotto blu, un libro in cui i personaggi vengono raccontati e narrati con lo stile che più gli si addice (la poesia, il monologo, l'atto teatrale, il racconto, la novella, il romanzo), un libro che si può iniziare a leggere da qualsiasi pagina, tutto è legato da un cappotto in un emisfero circolare.

Manlio Piazza, trentenne palermitano, si definisce poeta, perché ha iniziato a scrivere poesie, ma in realtà ha scritto di tutto e un po’ dappertutto: la sua storie di parole inizia con L’Eraclito, piccola rivista che si ferma al numero zero, prosegue con una breve permanenza a Campus, nota rivista universitaria nazionale, e poi il primo grande salto: Pathos, la rivista di cui è ideatore, editore ed edicolante (oltre a coordinarla e a produrla, la distribuisce all’interno dell’Università di Palermo), poi collaborazioni con Icaro ed Econews (riviste universitarie), dove scrive di musica e di libri. Nella vita oltre al poeta fa anche il consulente d’investimento per una grande banca, una personalità poliedrica e istrionica, che riversa in pieno nel suo stile di scrittura. Cappotto blu è il suo romanzo d’esordio.
www.pensierinblu.com

mercoledì 29 luglio 2009

Aperte iscrizioni selezione “Nuovo Almanacco di Poesia 2009”




Sono aperte le iscrizioni alla selezione “Nuovo Almanacco di Poesia 2009” organizzata dalla casa editrice La Zisa (www.lazisa.it) finalizzata alla pubblicazione di un’antologia poetica. La composizione inedita va inviata, entro e non oltre il 30/09/2009, per posta a: La Zisa Comunicazione soc. coop, via Francesco Guardione 5/e – 90139 – Palermo; o via e-mail a: manoscritti@lazisa.it. Per informazioni: cell. 3284728708 - cell. 3290326070 - tel 091331104; e-mail: segreteria@lazisa.it o presidente@lazisa.it.

Adriana Piazza, "Il tempo leggendario", Ed. La Zisa, Palermo, pagg. 144, euro 10


"Il tempo leggendario", è il ritratto di un'epoca, di un clima intellettuale di una generazione. L'epoca è la Belle Époque palermitana, un momento tra i più affascinanti e fastosi del capoluogo siciliano, ma anche colmo di pregiudizi, di inutile decoro borghese, di falsi valori, avidità, ipocrisia, egoismi. L'autrice descrive con olimpica imparzialità la storia di una famiglia vista con gli occhi di una bambina: è dunque la storia di un' infanzia e un'adolescenza analizzate con rara penetrazione psicologica, nonché l'immagine di una formazione intellettuale e morale. Assai presto, infatti, la piccola protagonista comincia a sentire i primi dubbi, comincia a intravedere i pregiudizi meschini, che si celano sotto la lucida superficie del mondo dorato della Belle Époque. Ma il processo di liberazione avverrà al prezzo di dolorose lacerazioni, nell'alternarsi di delusioni al contatto del mondo esterno e di dispiaceri familiari tra cui basti ricordare l'esperienza delle sorelle che lottano per strapparsi ai vincoli della società del tempo, e la tragica sorte di Franz, l'adorato fratello che è tra i personaggi più toccanti del libro. Infine, nelle pagine conclusive del romanzo, una revisione sentimentale, anch'essa dolorosa, condurrà la giovanissima protagonista alle soglie dell'età adulta.


Adriana Piazza è nata a Palermo dove ha insegnato Lingua e letteratura francese nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato testi scolastici dedicati alle problematiche del turismo e della civiltà francese (D'Anna - Firenze) e il romanzo «L'inflessibile voglia di Marie», sua prima opera di narrativa, oltre a numerosi racconti. Nel 2001 ha vinto il primo premio del concorso nazionale letterario «Il racconto breve – Nuccio Raffa». Successivamente, ha vinto diversi premi del concorso letterario Città di Avellino. Ha collaborato al mensile «Sicilia nell'arte e nella letteratura».

domenica 26 luglio 2009

Davide Romano, La buriana e altri racconti, La Zisa-Palermo


1. Il pensiero di lei
2. Quadro d'autore
3. Il viaggio, ovvero quando scoprii Milano
4. La buriana, ovvero lo strano caso del bambino che bruciò il suo violino
5. Madame Regina
6. Il santo in Paradiso, ovvero le raccomandazioni, come gli esami, non finiscono mai


1. Il pensiero di lei

«Mi piaci quando taci perché sei come assente

e mi ascolti da lungi e la mia voce non ti tocca.

Lascia che ti parli pure col tuo silenzio

chiaro coma una lampada, semplice come un anello.

Sei come la notte, silenziosa e costellata.

Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice.

Mi piaci quando taci perché sei come assente.

Distante e dolorosa come fossi morta.»

(Pablo Neruda)



«Gentile Chiara,

aspetto ormai da troppo tempo una tua risposta, anche telefonica, alle mie ultime lettere. Inizio seriamente a dubitare che esse ti arrivino e che tu le legga.

Dolce Chiara, il tuo silenzio mi preoccupa e mi ferisce. Ma ti confesso che non posso fare più a meno di te, anche se volessi... ma non voglio.

Il pensiero di te fa ormai parte del mio quotidiano vivere. Anima, come spirito vitale, le mie giornate, accompagna il mio cammino, impregna e vivifica tutto ciò che faccio. Tutto ciò che faccio solo per te, Chiara.

Se ho deciso di cambiare vita, d’incominciare a lottare in questa selva che chiamano consorzio umano per conquistare anch’io un posto per noi due, ebbene Chiara, è solo per te che l’ho fatto. Tu sei l’alba, non sperata né attesa, che finalmente è sorta nell’inutile, impazzito, squallido ruotare di questo mondo e che ha dato senso al mio inquieto, già lungo vagare.

L’alba che ha dato luce e colore a tutto ciò che mi circondava e che prima non vedevo. Se una cosa, forse l’unica, può spingerci a durarla ancora, a proseguire un cammino che già avevamo deciso di non continuare, questa cosa è l’amore di una donna.

Il tuo amore, il pensiero di te.

Lo so, forse in questo momento starai sorridendo... Ma cosa posso farci io se questo tipo di lettere risultano essere sempre così ridicole? È l’amore allora che è ridicolo? O siamo noi che l’amore rende ridicoli? Vorrei dirti, scriverti che “ti voglio bene”... Sarebbe più prudente... Ma sarebbe una mezza bugia...

L’amore non è il semplice voler bene, vuoi bene ad un amico, ad un parente, ma non gli dirai mai che lo ami, che per lui daresti te stesso, solo per lui.

L’amore non conosce misura, l’amore straripa, sempre, l’amore abbatte e fa crescere in abbondanza, l’amore non fa calcolo alcuno, dà dimenticando il suo stesso dare, nell’amore non siamo più noi stessi, perché l’altro occupa ogni parte del nostro essere. Noi c’incarniamo in lui, ci perdiamo nei suoi gesti, nei suoi umori.

L’amore è come il sole, sorge non atteso, scalda e scopre tutto ciò che la sua luce copre.

Non riesco a non pensare alla tua voce, arcana melodia, alle corvine onde dei tuoi capelli che ti lambiscono il volto, amo persino il modo in cui gli occhiali ti pendono leggermente a destra, il modo in cui guardi le persone sbirciandole di sopra gli occhiali, mi perdo nel mare dei tuoi occhi color...».

«Il mare dei tuoi occhi...» Il mare è azzurro, blu, verde vicino alla costa... i suoi occhi erano castani, anzi quasi nocciola. Che collegamento poteva esservi fra il colore del mare e quello dei suoi occhi? L’unico liquido che poteva, per colore, esservi accostato, era quello delle acque fognarie. Così come le aveva viste una volta che era passato vicino ad un tombino scoperchiato. Era rimasto tanto di quel tempo a fissare quelle acque lutulente, che d’un tratto gli era sembrato come se quell’enorme ammasso di rifiuti urbani avesse cominciato sinistramente a fissarlo, e ad attirarlo irresistibilmente nel suo perenne corso. E vi sarebbe davvero caduto se un passante non l’avesse violentemente urtato, gettandolo a terra sopra la carogna di un gatto.

Avrebbe potuto quindi scriverle: «I tuoi occhi color di fogna»? Oppure, eliminando definitivamente l’idea del liquido: «I tuoi occhi sembrano noccioline essiccate». No! Ogni volta che pensava a quegli occhietti curiosi, non riusciva ad allontanare dalla sua mente l’idea della fogna. Era un’equazione: occhi = liquido, occhi nocciola = acqua di fogna.

Rimase per un po’ di tempo sovrappensiero, incerto. Indubbiamente era giunto ad un punto morto, una situazione di stallo.

Avvicinò lentamente la stilografica alla bocca, e cominciò prima a passarsela voluttuosamente sulle labbra, poi, con vero gusto, a masticarla nervosamente con gli incisivi.

Scacciata l’idea della fogna, prepotentemente si fece strada nel suo cervello una frase di Céline che da mesi lo ossessionava diabolicamente: «L’amore è l’infinito abbassato al livello dei barboncini, e io ci ho la mia dignità, io!».

Ma Céline non aveva mai amato nessuno veramente, nemmeno se stesso e se non si era mai ucciso, era stato solo perché gliene era mancato il fegato. Che ne poteva sapere lui dell’amore.

Però ciò che diceva Céline in parte era vero, l’amore rincretinisce e ci fa un po’ barboncini, eccome.

La stilografica gli era esplosa in bocca, silenziosamente, macchiandogli le labbra e la lingua, e lasciandogli sulla lingua un sapore piacevolmente amaro. Spazientito, la spezzò in due, annerendosi così anche le mani, l’avvolse accuratamente nel foglio sul quale stava scrivendo, appallottolò il tutto e lo scagliò in un cartone dove giacevano dei romanzacci gialli destinati al macero.

Guardando verso l’orologio da muro, che solerte picchiettava, si accorse che il pomeriggio era già passato e il giorno volgeva al termine.

Alzò svogliatamente lo sguardo verso la finestra e, attraverso la lieve tenda lattea, vide il disco solare che, dopo aver incendiato ogni cosa, s’inabissava lentamente nelle profondità della terra. Era quasi buio. Soltanto due uccelli continuavano, come incuranti di tutto, a inseguirsi, mentre attorno a loro tutto il creato taceva attonito dinanzi ala morte di quel giorno.

Socchiuse gli occhi e restò per qualche minuto pensoso, rigirandosi in mente quella frase di Céline, come per cavarne il vero succo e poi gettarne definitivamente l’involucro di parole.

Invece si mise a demolire colui che, fino a poco tempo prima, era stato uno dei suoi numi tutelari. Uccisolo, infine, gli sembrò che si stesse lentamente accasciando ai suoi piedi.

Cominciò finalmente a stiracchiarsi sulla sedia di vimini, che accompagnava ogni suo movimento scricchiolando come a condividere con lui quel casto piacere fisico che si stava concedendo dopo un’impresa utile all’umanità intera: aveva ucciso un antisemita, un folle, Céline.

Come a chiudere definitivamente quella giornata, ripensò allo scrittore. Rivide i capelli scarmigliati e candidi, le guance incavate, gli occhi accesi e lo liquidò con un coglione, proferito rabbiosamente a mezza voce.

Il cadavere ai suoi piedi parve sussultare. Adesso, solamente adesso, finalmente era solo, solo e vuoto. Il sole era definitivamente scomparso, era sera. Lo avvolse la penombra, rifiutò il suo languido abbraccio e accese la lampada da tavolo, premendo sull’untuoso tasto rosso.

Aprì il cassetto della scrivania e ne estrasse un altro foglio profumato di carta giallina, decorata con dei fiorellini color pastello, cercò poi un’altra penna nel cassetto, la trovò e quindi l’aprì. Si rimise in posizione, volendo, anche quel giorno, spedire una lettera alla sua Chiara. Ma invano. Poggiò diverse volte la punta della penna sul foglio, come ad aspettare che i pensieri defluissero da essa. Ma nulla.

In attesa che gli venisse qualche bel pensiero da trascrivere, scrisse accuratamente la data, l’intestazione sulla busta e aspettò: nulla. Ancora nulla.

Non gli era mai successo, le scriveva ormai da quasi un anno, ed ogni giorno le aveva mandato una lettera. Cercò allora di pensare a Chiara, ma gli apparve immobile, le labbra sottili, serrate, gli occhi di ghiaccio, vuoti, che lo fissavano. Non riuscì ad immaginarla in movimento. Immobile, eterea, ecco come gli appariva. I suoi lineamenti si dissolvevano nel buio che la circondava, che la penetrava e lentamente la divorava. Il buio dei suoi silenzi, dei suoi gesti, dei suoi pensieri.

Decise che le avrebbe parlato lungamente di ciò che aveva fatto in quel giorno per lei. Ma che cosa aveva fatto?

«Gentile Chiara,

oggi ho dato una materia all’università. Poi ho cercato di scriverti due righe, ma non ci sono riuscito.

Ho ucciso quel coglione di Céline».

Qui si sarebbe dovuto fermare concludendo col solito: «tuo...»

Avrebbe però anche potuto scriverle:

«Mia Chiara,

questa è la duecentocinquantanovesima lettera che ti scrivo...».

La duecentocinquantanovesima, tante ne aveva scritte, lei non gli aveva mai risposto. Nulla, nemmeno un biglietto con due righe, una telefonata. Nulla. Eppure le aveva scritto ben duecentocinquantotto lettere, ogni giorno, solo a lei. Aveva cercato in tutti i modi di avere una risposta da parte sua, aveva usato toni talmente dolci da risultare mieloso, oppure duri, provocatori, per suscitare una risposta, anche risentita, nulla.

Neanche la sua voce riusciva più a ricordare, si era persa nel tempo. Quella stessa voce che lo aveva incantato quella sera sul pullman sul quale si erano incontrati.

Tornavano entrambi da ***. Lui era stato male per tutto il viaggio, perché solo dopo alcune centinaia di chilometri, si era ricordato che soffriva maledettamente il mal d’auto. Per quasi tutto il viaggio, era rimasto semi disteso sul sedile pieghevole, ingoiando tante di quelle pasticche, da aver cominciato ad avvertire un gran bruciore allo stomaco. Per più di trecento chilometri, aveva visto solo il soffitto di stoffa lurida del pullman, non badando per nulla agli altri passeggeri.

Come si accorse dopo, lei sedeva sul sedile posteriore. Dando l’impressione di leggere un libro, al buio. Era molto carina, ma lui stava troppo male per accorgersi di lei. Riusciva, in quel momento, a pensare solo a Scorsese e al suo film L’ultima tentazione di Cristo. Lui non era un credente, si riteneva troppo intelligente per esserlo. Però in quel preciso frangente, una sottilissima intuizione lo folgorò.

Scorsese era un grandissimo regista deficiente. Se non lo fosse stato, non avrebbe girato un’ingenuità di quel tipo. Perché, quando un uomo sta male e soffre veramente, ha solo un desiderio, che il dolore gli passi presto.

Pensare ad una donna?

Come farlo dall’alto di una croce?

Anche Scorsese, in fondo, era solo un coglione che un’orda di idioti senza cervello aveva proclamato “maestro”.

Verso gli ultimi cento chilometri, aveva iniziato a sentirsi meglio, la testa si era fermata finalmente sul collo, era scomparso il senso di vomito ed aveva notato quella graziosa ragazza con lo sguardo fisso sulla stessa pagina da ben trecento chilometri.

Osservandola bene, si potevano formulare due ipotesi. O la ragazza era talmente stupida da metterci ben tre ore per capire una pagina, allora dopo un primo approccio, constatata l’insipienza della stessa, si sarebbe girato disgustato mandandola in un mondo migliore: l’altro. O il suo atteggiamento era appositamente studiato per suscitare interesse ed avviare una piacevole conversazione, servendosi come ausilio anche della pagina letta.

Per sapere quale delle due ipotesi sarebbe risultata veritiera, rimaneva da fare solo una cosa, la più elementare: domandare. Fingere di interessarsi alla lettura di lei.

Rimessosi i mocassini, alzò un po’ la spalliera del sedile e col miglior sorriso, distrattamente chiese:

- Cosa stai leggendo?

Lei, come ridestandosi da una lunga attesa, ritornò alla copertina del libro, fece per leggerlo e rispose:

– Dedalus di James Joyce.

Lui riprese:

– A che punto sei arrivata?

Rimase un po’ titubante, poi continuò:

– Quando c’è quel dialogo fra lui e la madre. La madre gli rimprovera di aver letto troppi libri e che questi gli hanno fatto male. E nel frattempo gli prepara la valigia. Allora Dedalus le risponde che lui ha letto poco e capito ancor meno.

L’aveva detto tutto d’un fiato, fissandolo attentamente attraverso i suoi cerchi dorati e battendo lievemente, ritmicamente le palpebre. Però, mentiva spudoratamente. Quel brano infatti era alla fine del libro e lei teneva il dito alla metà del volume.

Probabilmente aveva letto quel passo dalla quarta di copertina o dall’introduzione, oppure aprendo casualmente il libro. Sì, lei mentiva, quindi, e gli aveva teso una femminina trappola. Da buon lettore, quale era o si credeva, se ne accorse subito, ma fece finta di nulla, non gli interessava proprio umiliarla, se non avesse avuto però quel musetto adorabile, l’avrebbe fatto volentieri.

Era una questione di sana giustizia.

L’aveva letto lui, Joyce, e veramente, nella traduzione mai superata di Cesare Pavese. Quella invece che lei teneva tra le mani era una di quelle edizioni super-economiche che la gente compra e che non legge mai, pessime traduzioni per risparmiare sui diritti d’autore dei traduttori.

Cercò velocemente qualche argomento per poter avviare con lei una piacevole conversazione su Joyce, che non risultasse troppo noiosa e accademica. Rapidamente gli passarono per la mente le pagine che sul romanziere avevano scritto Svevo, Pound e Miller.

Si soffermò per un momento sulla geniale intuizione di Thomas Merton sull’essenza tomista della poetica joyciana. Ma, indubbiamente, lei non lo avrebbe seguito e lui avrebbe proseguito da solo, saltando da una citazione all’altra, fino al termine del viaggio. E questo voleva evitarlo.

Così le rivolse la classica, banale, inutile domanda, la più stupida che si possa rivolgere ad un lettore che riemerga da una lettura della qualità di un Joyce.

– Ti piace? Che ne pensi?

Buttò lì la domanda, quasi distrattamente e lei la raccolse come impacciata nella semioscurità del pullman.

– Penso che, come scrittore, sia molto bravo, però è un pochettino confuso, ecco, sembra talvolta che...

Parve quasi sospesa in attesa che qualcuno la imbeccasse.

– Ecco, sembra che...

Riprese timidamente. Non sapeva, pur volendolo veramente, venirle in aiuto, completare la sua frase. E poi, non poteva fare questo al povero Joyce!

Così, come a farle intendere che aveva compreso il suo pensiero, le disse:

– Credo che tu in fondo abbia ragione. Anche la Woolf ha dato un giudizio di questo tipo.

Giocava maledettamente sporco. Si guardò attentamente intorno per vedere se qualcuno li stesse ascoltando, ma scorse solo un vecchietto che dormiva a bocca aperta con la testa riversa all’indietro. Nessuno poteva ascoltarlo. Poteva continuare a barare bassamente.

Lei si rivolse pensierosa verso l’esterno del veicolo, sussurrò perplessa:

– La Woolf? Forse è così...

Una lucina si accese, erano entrambi su un binario morto, bisognava uscirne al più presto. E anche se avesse voluto continuare su quella strada e infierire su di lei, gli bastò guardarla per un attimo di profilo, per accorgersi che gli stava succedendo qualcosa di talmente nuovo da lasciarlo disorientato e disarmato: si stava innamorando di lei. E credette che la cosa fosse reciproca quando, voltandosi, offrendogli il suo tre quarti, gli chiese:

– E tu, come ti chiami?

Si, lui come si chiamava? Rimase incerto, non gli sovveniva più, rischiava di apparire ridicolo.



Il resto del viaggio trascorse fra i suoi occhi che lo fissavano tra un battito di palpebre e l’altro, le sue parole che non percepiva più distintamente e il rincorrersi delle pietre miliari che inesorabilmente li avvicinavano alla loro destinazione.

Arrivati, quasi stordito, inebriato, le chiese di vederla ancora, lei gli scrisse il suo indirizzo sul palmo della mano e gliela strinse, mollemente.

Appena a casa, le aveva scritto subito, ogni giorno, senza ricevere però alcuna risposta. Pensando a lei, aveva ripreso gli studi interrotti, ora voleva avere qualcosa da offrirle. Lui che diceva che la vita in fondo non vale la pena di essere vissuta, perché la verità della vita è la morte, tanto valeva quindi togliersi dai piedi il più presto possibile, senza far troppo rumore per non disturbare nessuno.

Il pensiero di lei lo aveva cambiato, perché, come dicono i mistici, solo l’amore può redimere.

Con le sue lettere la inseguiva ogni giorno, sentiva che gli sfuggiva. Lei era la meta, e questa si spostava sensibilmente ogni giorno. Le sue lettere erano funi di parole che li legavano, che le impedivano di dileguarsi.

Da quella sera non l’aveva più rivista né sentita, solo la certezza che lo leggeva e che lo amava gli avevano dato il coraggio e la forza di scriverle per circa un anno, per duecentocinquantotto lettere.

Ma quella sera, al buio, con il cadavere di Céline che ammorbava la stanza, si rese conto che quella fune, intessuta pazientemente di parole e d’amore, si era definitivamente spezzata. Ritornò indietro su tutta la vicenda, come da vecchi si ritorna ai ricordi d’infanzia con il dubbio di aver più immaginato che vissuto davvero.

Sulla vecchia scrivania, fuori dal cono di luce che la lampada proiettava sulla sua superficie, giaceva una foto sbiadita di Franz Kafka che gli aveva regalato suo padre poco prima di andarsene. Accese un fiammifero e fissò quel viso sottile, enigmatico, quel suo sguardo ironico, beffardo.

Lo sguardo di un Buddha. Sembrava averla capita veramente lui la vita, per questo sorrideva a quel modo. Il fiammifero si consumò lentamente, poi si spense, così anche il pensiero di lei.

Quel sorriso sornione gli aveva fatto comprendere, in un attimo, tante cose, una vita intera, e una in particolare: lei non era mai esistita.

Una certezza, solida come un blocco di granito, freddo, compatto.

Lei non era mai esistita, tutte le sue lettere non erano mai arrivate ad alcuno. Partivano bianche, senza destinatario.

Prese un altro fiammifero dalla scatola umidiccia, lo sfregò contro il muro, si accese. Aprì il cassetto, ne estrasse un lumino votivo, lo accese e lo pose dinanzi alla foto del mite Franz. Lo fissò intensamente, sorridendo a sua volta, chinò il volto su di lui, poggiando il capo sui dorsi freddi delle mani e chiuse gli occhi stanco.

Una lacrima gli solcò il volto triste e si addormentò, ma non pensò più a lei.



2. Quadro d’autore

«Arthur, l’amore è l’infinito abbassato

al livello dei barboncini e io ci ho la mia dignità, io!»

(L. F. Céline - Viaggio al termine della notte)



– ’Sera! È andato bene il viaggetto di nozze?

Tullio e Liliana si trovavano nel posto più imbarazzante del mondo: l’ascensore. Avevano visto e visitato di tutto in ben tre settimane di viaggio di nozze.

Una volta erano pure entrati per sbaglio in un lurido bordello, avendolo scambiato per una sauna a buon mercato, popolato da prostitute bambine, pingui vecchi lascivi e una sorridente vecchietta grinzosa che amministrava l’azienda, come avevano subito intuito alle generose offerte di lei verso Liliana. Ne erano fuggiti biascicando un timido disculpe che aveva suscitato l’ilarità dei frequentatori del suddetto luogo. Ma mai si erano sentiti tanto in imbarazzo come in quel momento.

Tullio cercava con gli occhi una di quelle rassicuranti etichette metalliche che negli ascensori recitano: «Portata massima 365 Kg». E che sotto specificano: «Capienza 4 persone». Ciò significa che ogni individuo dovrebbe pesare ben 91,25 Kg, il che presuppone una popolazione particolarmente alta e corpulenta o che naviga verso una obesità patologica. Ma in quell’ascensore, per un fortuito ed inspiegabile caso, non c’era alcuna etichetta. Tullio allora si volse ai numeretti che stavano l’uno dietro l’altro in fila indiana come tanti diligenti scolaretti. Lesse: «Uno, due tre, quattro...», poi più su: «A... A – pensò – come Aperol, A come aspirina, A come astemio... ecco: A come attico! Sì, deve essere proprio così!» e, come ogni stupido, si meravigliò della propria perspicacia.

Guardò trionfante Liliana e, siccome erano ancora sposini e conseguentemente pazzi d’amore l’uno per l’altra e viceversa, lei abbozzò un sorriso e gli socchiuse un occhio.

– Allora, come sono le Bermuda?

L’ometto con il cappello di feltro e l’alito pesante stringeva prepotentemente il suo assedio. Qualcuno doveva aver fatto la spia e ora il nemico sapeva.

«Mia madre», pensò Liliana. Si guardarono intimoriti. Rispondere? Chi avrebbe preso l’iniziativa? L’intrepido e viscido ometto sferrò nuovamente il suo attacco:

– Sono belle le Bermuda? Lì fa caldo, vero? Alcuni dicono anche troppo...

La situazione precipitava, erano circondati, bisognava prendere l’iniziativa sul nemico e ricacciarlo nelle sue posizioni: Liliana levò verso Tullio lo sguardo implorante.

Tullio, schiacciato dal grave compito che lo premeva, era ritornato ai suoi composti numeretti che s’illuminavano l’uno dopo l’altro. Gli scolaretti si passavano educatamente la loro palla luminosa: il 4 al 5, il 5 al 6... «Ancora tre piani – calcolò – non è possibile sfuggirgli».

Liliana si volse nuovamente verso Tullio, capì di non potere contare su di lui: occorreva un atto d’eroismo puro. S’irrigidì tutta, un leggero fremito le percorse il corpo flessuoso e, con voce suadente, disse:

– Sono meravigliose, il posto più incantevole della Terra e ci siamo divertiti moltissimo, stupende – concluse.

Tullio allora, confortato e pungolato dall’ardimento di Liliana, rientrò nel suo ruolo e lanciò una severa occhiata all’indirizzo di quello per zittirlo. L’ometto, ormai sconfitto, abbassò lo sguardo e alzò la sua lacera bandiera bianca mormorando fra sé:

– Tanto devo scendere, e poi era solo così per sapere.

Difatti appena il diligente scolaretto numero nove ebbe ricevuto la palla luminosa, l’omuncolo si cavò il cappello dalla testa in segno di resa, mostrò la vergognosa canizie senile e, a passi veloci e leggeri, si diresse verso il suo rifugio, dove avrebbe dovuto rendere conto del fallimento della sortita al suo stato maggiore che, con un eufemismo, ancora chiamava moglie. Ma forse la sua guerra non era ancora finita e sarebbe ricominciata, in maniera assai più cruenta, appena varcato l’uscio del suo rifugio.

Queste rapide riflessioni causarono a Tullio un fastidioso senso di colpa che il suo psicanalista, il dottor Altiero Spinello, avrebbe poi dovuto rimuovere. Il che, tradotto in cifre, significava almeno due settimane di terapia, ovvero 630 mila lire di spese non detraibili.

Nonostante il leggero aggrottamento delle sopracciglia, Liliana portò la mano alla fronte e lo salutò militarmente. Tullio, orgoglioso di lei e dell’ardimento mostrato, si pose leggermente sull’attenti e rispose al saluto, ricordando i vecchi tempi del servizio militare quando, al ritorno dalla corvée nelle patrie latrine, si presentava al caporalmaggiore con gli stracci ancora gocciolanti, faceva il suo bel saluto e urlava:

– Soldato Pendolino – così ahimè! si chiamava – agli ordini, signor caporalmaggiore.

La lucina si spostò sul 10, lo scolaretto tratteneva pazientemente la palla tra le mani, e compresero di essere finalmente giunti al loro “nido d’amore”. Piccolo particolare di non secondaria importanza che ci era prima sfuggito: chiediamo venia per questo e speriamo che non ce ne vogliate. I due innamorati indossavano vistosi abiti estivi fabbricati in Cina e comprati alle Bermuda. L’efficientissima compagnia aerea Vololestoesicuro aveva, «per uno spiacevole disguido» mandato le loro valigie in Nuova Zelanda. Così si erano trovati con due borsoni di tela nera ricolme di Bibbie plurilingue della Abu (Alleanza biblica universale) e di clergyman neri per uomo e donna. Essendo cattolici praticanti – anche se naturalmente sul fatto del sesso per loro il Papa aveva torto – non avevano osato accomodare con quelli e avevano preferito girare per Roma in calzoncini fiorati e magliette fosforescenti, sulle quali campeggiava spavaldo un Bermuda for Lovers. E tutto questo in pieno inverno con sei gradi sotto zero. Ritornando diremo che i due inseparabili si ritrovarono “finalmente insieme” sul pianerottolo di casa illuminato da una tremula luce al neon e che si sentivano «terribilmente felici», come in seguito Liliana ebbe testualmente a dichiarare in tribunale, tre anni dopo, al momento della causa della separazione.

Ma in quell’attimo, sbronzi di immagini pubblicitarie che ritraevano sposini felici e consumatori, e di amici e di amiche che gli gridavano ancora alle orecchie: «Tanta felicità», pensavano, fanciullescamente, creduli che tutto dovesse durare veramente in eterno. Avrebbe poi avuto ragione il saggio don Genesio Scafazza che, dopo la cerimonia nuziale, gli aveva detto, fra il serio e il faceto, scrollando la testa: - Ma cosa avete fatto! Cosa avete fatto!

Click, clack, track, track, tock... la lunga chiave dentellata entrò nella toppa della porta corazzata, questa pesantemente si aprì, sostenendosi faticosamente sui robusti cardini. Tullio, come nei migliori films americani, prese Liliana fra le braccia muscolose, entrò di traverso nell’intima oscurità dell’appartamento, cercò di arrivare a tentoni all’interruttore della luce e... «cai, cai, crack, tump», cadde rumorosamente sul pavimento, lanciando Liliana verso il portaombrelli di Capodimonte e ferendo, prima col piede destro poi mortalmente col peso del corpo, un tenero – forse un po’ troppo tenero – barboncino nero, al collo del quale, accesa finalmente la luce, sarebbe stato trovato un cuoricino di cartone rosso con sopra scritto: «A Lilly da Mamy perché Pallino la consoli quando il suo Tullio sarà al lavoro».

Rimessosi in posizione verticale, Tullio, da bravo “Socio Emerito” del PuPuEffe, sollevò Pallino, ormai lo era anche di fatto, e lo adagiò dolcemente sul tavolo in stile lasciando che col suo sangue sporcasse il tappeto Made in Iran dono della zia Clotilde (vi siete mai chiesti perché le vecchie zie zitelle debbano chiamarsi proprio Clotilde?).

Liliana, invece, dolorante cercò di trovare un punto d’appoggio tra i cocci per potere dar leva e risollevare la sua massa corporea. Si era graffiata un braccio e aveva un taglio netto sulla fronte che aveva battuto violentemente contro lo stipite della porta.

– Tutto in vero mogano – aveva orgogliosamente detto il padrone di casa il giorno in cui avevano stipulato il contratto per l’affitto.

Dolorosamente stupita, guardò prima il tavolo in stile, poi il tappeto Made in Iran e per ultimo Pallino al quale Tullio stava ancora cercando gli occhi per carezzarlo. Scossa dall’emozione provata e dal pericolo corso, gli si gettò fra le braccia piangendo:

– Oh, Tullio, Tullio... che paura ho avuto!

Tullio sentì il calore del suo corpo, il profumo dei suoi capelli, le sue lacrime sulle spalle e le ripeté con tono monotono e rassicurante:

– Lilly, Lilly, dai, non fare così, ricompreremo un altro tappeto uguale a questo, così la zia Clotilde non se ne accorgerà, dai...

Pallino dal tavolo in stile li fissò per l’ultima volta da sotto il folto pelo e spirò contento di lasciare loro una carogna putrescente per casa.

Allontanata da sé Liliana che ormai cercava di asciugarsi le lacrime, Tullio si fece forte e corse a prendere dal ripostiglio il sacchetto nero per riporvi dentro la carcassa esanime di Pallino e, chiusolo per bene, lo fece ricadere davanti la porta di casa, dove un solerte portiere l’indomani sarebbe passato per prelevare i rifiuti solidi.

A sua volta Liliana, con passo deciso, si diresse verso la cucina all’americana ritornandone sventolando uno straccio verde con un cagnolino bianco chiazzato di marrone, sotto il quale era scritto, in caratteri gotici, Pallino. Lo spiegò e lasciò cadere sul tavolo dove, in poco tempo, s’imporporò. Tullio chiuse la pesante porta corazzata, badando a non produrre alcun rumore, con un piede spinse verso il muro i cocci dell’ex portaombrelli della zia Clotilde (ma è davvero assai generosa questa zia Clotilde, anche se ha pessimi gusti, come tutte le vecchie zitelle, del resto), e si lasciò sprofondare nella poltrona in vera pelle, come esibiva il certificato di garanzia ancora allegato.

Cercando di risollevare un po’ Liliana, che appariva palesemente scossa, ricomponendosi ed assumendo il tono e la posizione di un attore americano, che una volta aveva visto seduto su una poltrona di pelle simile alla sua, evidentemente anch’essa in vera pelle, esclamò con aria quasi gioviale e certamente “giovanile”:

– Ora ci vorrebbe un whiskino.

Sì, doveva aver detto proprio così quell’attore americano, che si era sempre sforzato d’imitare in ogni cosa, ed al quale era riuscito ad assomigliare talmente che Liliana non gli «aveva resistito» (come risulta dagli atti per la separazione). Liliana si calò anch’essa nel suo ruolo di mogliettina carina, allegra ed amabilmente stupida, oltre che giovanile, e rispose come da copione:

– Penso che sia proprio una buona idea.

E, sebbene nessuno dei due fosse mai andato oltre la birra fredda e il vino in brik, continuò chiedendo:

– Liscio?

Tullio, preso di sorpresa, di rimando rispose:

– Si, certo, amore.

Un dubbio però lo assalì subito: «Il whisky col ghiaccio è sempre liscio, oppure si chiama in un altro modo?»

Non volendo chiedere, preferì tacere.

Liliana aprì il mobiletto laccato (piccolo scatto della calamita), individuò il whisky con quella bizzarra etichetta di sghimbescio e l’omino in tenuta di cavallerizzo, lo agguantò, ne forzò il tappo e, vinta ogni resistenza, cominciò a versarne il contenuto.

«Quanto sarà un po’ di whisky? – si chiese preoccupata –. Mezzo, un bicchiere, oppure un dito? Andiamo per il mezzo. In medio stat virtus, diceva Aristotele».

La sua formazione classica non era andata perduta. Il whisky correva placido dalla bottiglia al bicchiere oblungo.

«...è bello guardarlo scorrere – pensò –, come è tranquillo, dà un senso di pace... di calore familiare. Ha proprio ragione la TV quando ci mostra gente allegra e serena con le bottiglie con l’etichetta di sghimbescio in mano».

Nel frattempo però Tullio non era rimasto inoperoso, mentre Liliana versava il whisky, pensando se avrebbe fatto male alla linea prenderne un po’ anche per se, lui, da buon ragioniere contabile quale era, aveva iniziato a passare in rassegna tutti i regali ricevuti, momentaneamente confinati nel lato ovest del soggiorno-sala da pranzo-ingresso.

«Dunque: i cocci dell’ex portaombrelli della zia Clotilde, il tappeto Made in Iran della stessa, il televisore da 75 pollici stereo con videoregistratore incorporato e televideo parlante dello zio Arturo, il BravoTritak della vicina, il servizio da tè per 120 di suo zio Augusto, le due sedie stile Luigi della sorella di Liliana, Angela, il lampadario di cristallo e murano verde di Antonella e Ahmèd («Non siamo razzisti, anzi siamo cristiani, però un arabo!» aveva detto zia Clotilde), c’è qualcosa che non quadra... il pacco verde, verde pacco, fiocco giallo, giallo, allo, lo... ecco!»

– Ma che cos’è questo pacco verde col fiocco giallo? – chiese gentilmente.

Nessuna risposta.

– Lilly! – urlò.

Liliana si era fermata a contemplare il whisky che si agitava nella bottiglia con l’etichetta di sghimbescio...

– Lilly!

Qualcuno la chiamava come dal di fuori di un sogno... «sì mamma, mi alzo, ancora cinque minuti...».

Il liquido giallastro si increspava nella bottiglia, le sue onde si innalzavano fino al tappo, ne fuoriusciva qualche goccia, ricadevano su se stesse per naufragare nella tranquillità del fluido, strinse il tappo e inclinò di più la bottiglia, ora era in posizione orizzontale, come sarebbe stato bello mettervi dentro una nave con le vele, sognò, e vederla dibattersi fra i flutti del mare in tempesta. Una voce quasi le venne in soccorso da dentro se stessa e le suggerì strane parole: «Come sei piccolo Achab sulla tua baleniera, io sono il grande burattinaio e ti osservo mentre tu non capisci che esiste un “altro” al di fuori della bottiglia che non riuscirai mai a vedere e conoscere...»

– Lilly.

«Mamma, ancora cinque minuti, è bello sognare...»

– Lilly.

«... cinque minuti...».

– Liliana, ma che ti sei intontita?

«È una voce dura, sonora... non puoi esser tu mamma, la tua voce è dolce, invita, sussurra...».

– Sì, sì, Tullio, che c’è? – rispose finalmente.

– Liliana – la voce si fece più suadente, era uno specchio d’acqua.

Lei si tranquillizzò:

– Sì, amore?

– Hai visto quel pacco verde sotto il tavolo? –. Era meraviglioso quando faceva domande, sembrava uno di quei professori che intervengono ai talk-show dove dicono cose quasi intelligenti.

– Quale pacco? –. Stupore misto a femminile innocenza.

– Quello sotto il tavolo, non lo vedi? Me lo prendi per favore? Io sono stanco morto.

«Lo adoro quando dice per favore», pensò Liliana. Obbediente si chinò sotto il tavolo, evitò con attenzione la macchia di sangue del tappeto coi piedi, osservò per un attimo le gocce di sangue che colavano dall’alto come una pioggerella primaverile, afferrò il voluminoso pacco verde, uscì da sotto il tavolo e lo porse al suo lui.

Tullio lo scartò con cura, lentamente, con delicatezza. Voleva aumentare il gusto della sorpresa. Ripensò ai sue sere di Natale di quando era bambino, la gioia di scartare i regali e di riporli in un angolo, per continuare a scartarne ancora. Era questo in fondo il suo regalo di Natale: scartare i regali, tanti, grandi con le loro carte variopinte e fantasiose, coi loro biglietti bizzarri e affettuosi, con i loro fiocchi sgargianti e sfrontati. Mise via la carta ai piedi della poltrona in vera pelle, lo tenne fra le mani, la fronte gli si aggrottò leggermente. «È un quadro», pensò, lo girò e lo rigirò fra le mani, se lo avvicinò al viso, ne cercò un gancio.

«Non c’è... come si fa a capire da che parte guardarlo? Cani sono, cani, cani!».

Non riuscì egualmente a capirvi nulla: tutti quei colori male accoppiati, quelle linee spezzate, ci fosse stata almeno una firma, una data. Nulla. Con una faccia da cassintegrato lo passò a Liliana. Stessa scena di prima: lo avvicinò al viso, lo mise a distanza, lo girò, lo rigirò. Nulla. Nemmeno una freccia con su scritto «alto». Nulla. Sembravano due primati che scoprono la civiltà.

Tullio, nel frattempo, aveva ripreso la carta per cercare un biglietto o qualcosa del genere. Si fece pensoso: «Chi può essere stato a farci un regalo così? Zia Carmela non può essere stata, quella ha sì e no la terza elementare, pensa se ti va a regalare un quadro». Velocemente passò in rassegna tutti gli invitati al loro matrimonio. Fra i possibili donatori, che si riducevano a tre, soltanto uno, padre Dino Rosso, poteva con certezza essere indicato come reo non confesso.

«Padre Dino – ripeté fra sé – non mi meraviglierei della cosa, con tutti i libri che gli hanno fatto leggere gli si deve essere un po’ spostato il cervello. Purtroppo è un amico di Liliana e non posso parlar troppo. Vaglielo a toccare a quella!».

Terminata la sua sfortunata ricognizione, Liliana volse verso Tullio il suo sguardo da “cerbiatto ferito”. Tullio, per risposta, scrollò le spalle, dilatò le narici e appallottolò la carta gettandola fra i cocci dell’ex portaombrelli della zia Clotilde, ormai classificato come spazzatura da rimuovere al più presto.

Su una cosa però i due colombini si erano già tacitamente messi d’accordo: quel “coso” non sarebbe stato appeso alle pareti, già peraltro piene, del loro nido d’amore. E poi bisognava pensare ai bambini venturi: e se un giorno posando incidentalmente gli occhi su quel coso fossero rimasti traumatizzati? Dovevano pur ricordarsi di quell’articolo, comparso su “Io Bambino e tu?” di Gian Gianni Piagetto, che avevano letto insieme durante una partita amichevole allo stadio.

No, era stato già deciso, quel coso non si adattava per nulla all’arredamento in stile. E del resto come presentare quell’oggetto così colorato agli amici curiosi? Già se li immaginava i loro commenti:

– Uhm, un bel quadro, ha un suo messaggio.

– Di chi è?

– Che rappresenta?

– Cos’è astratto, futurista?

– È originale?

– Una copia numerata? O semplicemente una buona riproduzione? – avrebbe magari un giorno chiesto il più impertinente e sfrontato di loro.

Tullio allora sarebbe rimasto a bocca chiusa e sarebbe sprofondato in una terribile e frustrante vergogna dalla quale solo il suo psicanalista l’avrebbe potuto un giorno trarre fuori.

– Sarà stato uno dei tuoi amici a farci questo scherzetto – disse Tullio con sarcasmo a Liliana.

Lei ebbe un leggero moto di stizza, ricordò ciò che mamy le aveva riferito circa le piccole rinunzie che in un matrimonio bisogna pur fare. Ripassò mentalmente la lezione, incassò il colpo e produsse un sorriso enigmatico alla Gioconda.

Alla prima occasione che gli si presentò, badando bene ad evitare la cerchia degli amici e dei parenti, riavvolsero il coso in una carta scarlatta, gli posero sopra un enorme nastro verde, e lo porsero ad un collega di Tullio, che compiva gli anni, accompagnandolo con una frasetta di circostanza del tipo: «È un pensierino per te».

Questi, apprezzando al pari di loro, gli cambiò a sua volta la carta, vi incollò un nastro di grandezza quasi imbarazzante e lo accompagnò con un biglietto musicale che diceva: «Ad un amico vero un piccolo pensiero in ringraziamento di una profonda e decennale amicizia. Tuo...».

E così di carta in carta, di nastro in nastro, di biglietto in biglietto, di sorriso in sorriso, di augurio in augurio, fra smorfie delle più varie e divertenti e apprezzamenti diversi sul donatore del momento, che non riferiremo per non incappare nella severa censura, il coso, ovvero il quadro, finì per decorare un tetro sgabuzzino di ferri vecchi, fra un osceno e voluminoso corno rosso e un bisunto calendario porno del 1976.



3. Il viaggio

(ovvero, quando scoprii Milano)



«Non so da dove vengo

Non so chi sono

Né so quando morirò

Non so dove vado

Mi sorprendo di essere così allegro.»

(Martinus Von Biberach)



«Come tu, amando la sapienza

(filosofeon), abbia percorso

molte terre per il desiderio

di sapere».

(Erodoto, «Storie», I, 30,2)

25 Marzo 1997


Scrivo soltanto adesso, dopo essere tornato dal viaggio ad Abano Terme, in provincia di Padova, e a Milano. Sono arrivato alle 17 del 18 marzo e già i ricordi, le sensazioni e tutto il frutto di questo viaggetto un po’ avventuroso stanno per essere seppelliti dal procedere dei giorni, con il loro frastuono e la loro ostentata vacuità.

Così scrivo per fissare, conservare e salvare ciò che di questo viaggio rimane. Sono un paziente amanuense che, nel silenzio del freddo studium, mette in salvo i secoli dal loro oblio copiandone le opere. Ma io so, a differenza del santo monaco, che un giorno io stesso, le opere e lo studium rovineremo e non rimarrà altro che macerie. Ed è necessario che sia così.

Un proposito, uno dei tanti: annotare tutto mentre si svolge. Non aspettare il ritorno, ma registrare e buttar giù tutto sul momento. Un poco come Bruce Chatwin che riempiva della sua grafia esile e leggera i taccuini che si portava sempre dietro nei suoi viaggi.

Ma ho una scusa, una scusa per la coscienza, piccola: ho avuto un incidente non proprio lieve e la mia testa non funziona per ora tanto bene. Trovo ancora difficile lo stesso atto dello scrivere e non so, in verità, se ciò dipende più dal colpo di frusta o dal mio rincoglionimento presenile che mi ha colto da qualche tempo.

Un altro proposito (non costano nulla, si può esser generosi): non rinunziare mai ad un bel viaggetto. Perché l’itinerare ti ridà il tono, t’insegna quello stile leggero di vivere la vita che è la condizione e il dono di ogni viaggiatore per vocazione. Inoltre, e l’avevano scoperto i greci, il viaggio ti costringe ad aprirti, ad abbattere le barriere mentali, a muoverti con un bagaglio leggero (poche cose, poche idee essenziali), a improvvisare continuamente, a sentire pulsare incessantemente intorno a te il mare indistinto e mobile dell’umanità, a tenere sempre gli occhi e le orecchie aperte per imparare a raccogliere le gemme disseminate per la strada.

L’incidente, o le sue conseguenze, mi rendono difficile concentrarmi adesso. I pensieri, le idee, vengono fuori senza ordine, come confusi, inebriati folletti in lotta fra loro. Ma un pensiero è chiaro in me, un punto luminoso nella notte dell’anima mia oscura (amo Juan de la Cruz, anche da ateo lo amerei): devo saper camminare da solo.

L’altrui mediocrità mi ha sino ad oggi confortato. Un’ottima scusa per la mia beata pigrizia. Cerco altri che m’incoraggino a fare ciò che potrei ben fare da solo. Questa è la mia catena ed io così non volo. Ma si è mai visto un uccello aggrappato ad un ramo volare? Nell’autobiografia di Ignazio di Loyola si dice che il santo decise di camminare da solo per non appoggiarsi in nessuno, ma solo in Dio. Se Richard Burton o Lawrence d’Arabia avessero aspettato qualcuno che li accompagnasse, non avrebbero mai lasciato la placida e sonnolenta Inghilterra. Sarebbero morti di noia. Ciò che in loro io vedo e mi conquista è, però, questa colta solitudine itinerante. L’immagine del colonnello Lawrence che, mentre percorre su un cammello l’ardente deserto, traduce Omero, mi conquista. O quella di Charles de Foucauld, che travestito da arabo-ebreo percorre parlando ebraico ed arabo il Maghréb, e scopre Dio. O quel Richard Burton che, travestito da osservante muslìm, si reca alla Mecca in pellegrinaggio devoto…

Costoro danzavano la vita. Ed era una danza folle per chi stava ad osservarli. Ma essi sentivano in sé risuonare l’armonia di infinite stelle e una musica nuova di millenni.

Torniamo al viaggio… Sento il sangue ancora una volta scorrermi impetuosamente dentro. Un torrente in piena che travolge i miei sensi. Ho asservito il mio corpo ed ho vinto con la forza di una volontà sovrana. Sono partito poche ore dopo un grave incidente. Il medico del Centro Traumatologico mi aveva proibito assolutamente di muovermi:

– Le conseguenze di uno stress del genere dopo lo shock dell’incidente potrebbero essere gravi.

Non gli ho risposto, avevo già deciso e mi sono portato dietro i referti del pronto soccorso. Con Sasà, amico discreto e paziente compagno di cammino, abbiamo fatto più di 3.200 km in meno di quattro giorni. Più di dieci ore di viaggio al giorno. Siamo partiti alle 11 di sabato 15 marzo e siamo tornati alle 17 del 18 marzo.

Ad Abano tutto è andato più che bene. Ero scoppiettante come raramente mi capita. Arrivati in treno alle sette del mattino, ci siamo fatti un giretto per il paese sonnacchioso e deserto. Abbiamo “visto” un pezzetto di messa (Vangelo, omelia e consacrazione). Era una messa silenziosa e triste. Anche la predica era triste e il Cristo di legno, dall’alto della croce, era anche lui triste, come se non fosse domenica e non fosse nemmeno risorto.

Alle otto, Niko, il nostro amico del Nord-est, è venuto a prenderci alla stazione e ci ha offerto il secondo caffè della giornata. I caffè del freddo Nord si bevono facilmente, sono lunghi e leggeri, come i caffè alla turca o quelli albanesi.

In occasione del primo caffè nello stesso bar, in conseguenza di una nostra avventura con una malefica zuccheriera d’argento che non voleva aprirsi, dinanzi alla silenziosa e ostentata indifferenza del barista (non avrà voluto mortificarci), abbiamo ribattezzato, e per sempre, lo stesso col nome di austro-ungarico. Nome che in Veneto ha il suo bel significato, e non positivo.

A casa di Niko. Saluti, baci e abbracci come al solito. Piccola nota a margine del testo: la seconda viene sempre meglio. Infatti, la diffidente (o timida) figlia di Niko, Elena, è stata con me molto più accogliente e cordiale della volta precedente. Più ci si conosce e più ci si vuol bene (è anche vero il contrario), come dice Santa Caterina da Siena nei suoi scritti. Sasà poi è rimasto conquistato dalla bionda fanciulla dai capelli inanellati.

Doccia veloce (per Sasà), un po’ meno per me. E poi montaggio dello stand sulla Croazia al Palazzo del Turismo di Abano.

Pranzo con la sezione del Pds del Comune. Naturalmente ottimo e abbondante con tanto, tanto vino.

Sasà ha avuto il suo momento di gloria: smentendo il fatto che nessuno se lo fila, è stato scambiato da dietro, a causa della folta chioma, per una donna da un veneto armato di orchidea. Ma al vedere il fitto pizzo (o pizzetto) che ornava il suo volto, non propriamente femminino, il valentuomo galantuomo (e avventuriero del sesso) si è presto e vergognosamente ricreduto.

NB. In occasione del pranzo ho ricevuto con un po‘ di solennità la tessera dell’Arciscout, sono anche io associativo, adesso. Contento? Per quel che può valere, sì.

«Post prandium aut stabis aut lente ambulabis», dicevano i saggi della Scuola salernitana. Cioè, dopo pranzo o te ne starai bello fermo a riposare o passeggerai lentamente. Noi invece siamo andati alla conferenza correndo perché eravamo fortemente in ritardo. In tutto quel trambusto non avevo capito se il mio intervento doveva essere dalla cattedra o dalla platea. Arrivando in sala ho subito visto che alla cattedra c’era un posto vuoto. Ho, così, rimediato facendo un intervento dalla platea, ma andando a parlare alla cattedra. Mi sono esibito per circa un quarto d’ora (almeno credo). Ho parlato dell’essere giovani in Sicilia, citando un po’ tutto quello che mi ero letto prima di salire. Alla fine ho strappato pure un applausetto (mia gloria momentanea) dai quattro gatti presenti. L’applausetto (o sitting small ovation) è stato interrotto dal Limoccia dell’associazione Libera il quale, con la scusa di rispondere ad una sollecitazione che non gli avevo posto, ha rimescolato l’insipido discorsetto sul Progetto e la Progettualità, che mi ha ricordato alcuni capetti dell’agesci (Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani) che altro non possono e non sanno dire che le quattro paroline imparate nei convegni e sulla stampa associativa. Ma la minestrina scaldaticcia e sine sale ha avuto solo l’effetto di accelerare la conclusione della conferenza-incontro sulla mafia.

L’altro relatore era Augusto Cavadi (bravo e preparato) che ha fatto un provocatorio intervento dal quale doveva scaturire un acceso dibattito che, però, non c’è stato.

I veneti guardano alla mafia così come guardano alla fame nel Terzo Mondo: in fondo, non gliene frega niente. È un problema lontano, lontano, lontano, a Sud, appunto. Ho inoltre scoperto che sull’antimafia ci si può anche campare. I relatori sul tema vanno di qua e di là intascando cospicui gettoni di rimborso spese.

E dopo l’estenuante conferenza, tutti in pizzeria, a spese del Comune.

Nonostante le mie buone abitudini mangerecce, ho dovuto lasciare metà di un gustosissimo calzone farcito di mozzarella di bufala. Cominciava allora quella strana inappetenza che ho ancora.

In compenso ho chiacchierato a lungo con la malinconica Elena, che sembrava dovesse piangere da un momento all’altro.

Dopo la pizza, a casa. Mi sono ritrovato nel mezzo di una verifica familiare che mi ha ricordato i nostri dopo festa della sera.

Tutti sono andati poi a letto ed io son rimasto a chiacchierare con Niko fino alle 2. Abbiamo parlato proprio di tante cose e di nessuna in particolare.



Ma ritorniamo al viaggio schematicamente:

· nanna: ore 2;

· sveglia: ore 6.



Niko mi ha svegliato con un tazzone di caffè, gli voglio bene.

Alle 7 e 30 usciamo da casa sua, abbracci e baci, poi il treno per Padova e da lì quello per Milano.

Bellissime ragazze sul treno. Chiare slave dai corpi affusolati.

Arriviamo a Milano.

Il treno è in orario. Queste cose succedono solo al Nord. Scendiamo dal vagone e vedo esplodermi intorno la splendida stazione. È un sogno avveniristico di una mente grandiosa e superba.

Dopo aver lasciato uno zaino (pieno di tutto) al deposito bagagli, usciamo dalla stazione e giriamo senza meta per la città. È primavera, c’è caldo, un sole insolito per la nebbiosa Milano. Prendiamo la métro, usciamo in piazza Duomo. Non ci siamo preparati nessun itinerario. Andiamo a caso. Facciamo colazione, la città è movimentata, ma silenziosa, rispettosa dei suoi abitanti. Entriamo nel Duomo, osservo che ci sono confessori per ogni lingua, una vetrinetta con le opere di Martini, sfoglio il settimanale della Diocesi: è bellissimo, più di quaranta pagine, impostazione grafica da giornale che tira.

Usciamo dal Duomo e andiamo a San Fedele, la chiesa dei Gesuiti. All’entrata, un computer t’illustra le opere all’interno della chiesa. Vedo che a San Fedele ci sono locandine per incontri tenuti dai maggiori teologi italiani e stranieri. Quelli che io leggo sui testi o sulle riviste teologiche. Qui la gente li incontra, qui è il centro dell’Impero, della Cristianità. Noi ne siamo solo la periferia.

Continuiamo a girare: la Scala, infine, corso Vittorio Emanuele II, dove la gente si dà appuntamento, passeggia con il Corsera o Il sole 24Ore sotto il braccio. Ci sediamo. Vediamo passare splendide ragazze, in continuazione. Siamo due provinciali in una città europea. Ci sentiamo Totò e Peppino nella scena di «Totò, Peppino e la malafemmina» nella piazza del Duomo. Sasà “conza”, o “rolla”, due sigarette. Fumiamo, parliamo, commentiamo ciò che vediamo.

Ragazze, donne belle, aggraziate, vestite alla moda. Librerie di tre piani con commessi informatissimi e gentilissimi. Librerie con edizioni in lingua straniera. E stranieri residenti che camminano disinvolti con la valigetta di pelle.

Aspettiamo l’amica di Sasà. Non ricordo più neanche come si chiami. Non arriva. Telefoniamo: nulla! Decidiamo di andare a casa sua. Prendiamo un tram, un altro tram, un autobus e siamo in un altro Comune. Quanti chilometri? Quindici, o forse venti, tanti, in soli quaranta minuti. Il sogno d’ogni meridionale che passa intere ore ad aspettare autobus che non arriveranno mai puntuali.

Scendiamo al capolinea. Dinanzi a noi il Municipio. Sembra uscito da una puntata di Spazio 1999. Dall’altra parte, un albergo di dimensioni imbarazzanti, una costruzione super lussuosa da film americano e, di seguito, una serie interminabile di palazzi tutti uguali e dello stesso colore.

Lei abita ad un imprecisato numero civico che Sasà ricorda appena. Mezz’ora di cammino sotto il sole. Arriviamo a casa sua. Ci apre la nonna pugliese che ci guarda come se fossimo Testimoni di Geova. Sono le sedici, ci lascia fuori casa. Scendiamo, telefono a Manuela: appuntamento alle 17 e 30 davanti al Duomo, porta un’amica per Sasà (non incontrerò mai Manuela1).

Ci sentiamo chiamare da una finestra: è lei, l’amica di Sasà. È tornata, saliamo, bevo tre bicchieri d’acqua, sono disidratato. Sua nonna si siede in un angolo coperto del balcone e ci osserva mentre sorbiamo il caffè. Siamo digiuni e lei ci offre un caffè. Sono le 16 e 20, viene un’amica, scendiamo. Trenta minuti dopo, siamo nuovamente in Galleria. Ci lasciamo, anzi, ci lasciano: lei deve andare in palestra… la stronza!

Io penso: «18 mila e 500 lire di biglietti di tram e autobus, un pasto saltato, per vedere una «…» di sedici anni della quale mio cugino si è invaghito l’anno precedente e che adesso ci lascia attoniti e increduli sulle consunte palle del Toro. Ci guardiamo con Sasà, non commentiamo, ha afferrato al volo. Adesso abbiamo solo un pensiero: mangiare!

Entriamo da Mc Donald’s. Due pranzi standard (hamburger, tante patatine e una coca): 15 mila e 800 lire. Sasà tiene gli scontrini. Mangiamo di gusto.

Siamo due selvaggi che scoprono impacciati la civiltà. Non riusciamo ad usare pienamente il posto. Sasà si alza per cercare i tovaglioli di carta. Gira per il locale guardando in ogni angolo per scovarli, nulla. Seduto, da più di tre metri di distanza, vedo dove sono. C’è un distributore bianco che presume la conoscenza del suo funzionamento da parte dell’avventore. Lo indico a Sasà, mi capisce subito, è un genio. Ne fa razzia. È la sua, la mia, la nostra rivincita di tribali offesi dalla civiltà e dalla sua incomprensibile ovvietà. Non riusciamo, però, a trovare le cannucce. Scoprirò successivamente che sono nello stesso distributore dei tovaglioli. Me lo mostrerà involontariamente un’esile orientale fasciata d’abiti neri.

Mangiamo in fretta: è la fame. Gustiamo il pranzo. Siamo satolli e soddisfatti, veramente, e non per induzione o condizionamento ambientale.

Mentre Sasà va a compiere l’atto piccolo – un atto, forse, un po’ più grande, a giudicare dal tempo che ci mette, o non ha trovato il bagno? – mi accorgo di un’affascinante straniera dai capelli biondo platino. Sarà sulla trentina e sta davanti a me in fila per la cassa. Fuori dall’isola, le ragazze, se le guardi e gli piaci, ricambiano i tuoi sguardi e ti sorridono, non si offendono come da noi. Quante volte ho “abbordato” una straniera guardandola, loro dicono che solo noi siciliani lo facciamo in quel certo modo. La fisso e penso che mi piacerebbe avere una storia con una donna come lei. Una volta l’ho avuta, ma era bruna e incasinata. Però, le ho voluto bene. Abbasso gli occhi, Sasà è tornato. Lei è andata fuori. Ci alziamo, usciamo. La cerco con lo sguardo, è scomparsa, non m’importa veramente e continuo a camminare senza più cercarla.

Dentro di me rimane la sensazione d’averla già vista, di riconoscerla adesso, d’averla già incontrata. È stato il suo stesso rispondere ai miei sguardi guardandomi che me ne ha fatto convincere. Ancora qualche passo ed anche questa sensazione scompare, come un leggero velo che il vento solleva e porta via, lontano. A me basta, poi, saltare da una storia all’altra, senza troppa fatica. Una settimana, due, un mese e poi basta. Non cerco la donna della mia vita e, lo so, non la troverò mai. Sono un maudit2, e basta.

Sono stanco di ragazze “serie”, tranquille e borghesi. Non hanno mai fatto altro che umiliarmi coi loro soldi e castrarmi coi loro pensieri perbene.

Sono le 17 e 30. Trascino Sasà in una libreria di Remainders. Vi scopro libri che cerco da anni. Anche questa è Milano. Compro una corrispondenza Papini-Vallecchi (lire sei mila) e uno splendido «Gesù e Israele» di Jules Isaac (il primo testo mai scritto di cristologia ebraica). Spendo 21 mila lire. Mi son mangiato la cena. Non ho più soldi. Non riesco a comprare la «Vita di Galilei» pubblicata da Nardini e la «Vita di San Tommaso d’Aquino» del padre Spiazzi, domenicano. Ho visto sfogliato e odorato «Il dio di Freud» pubblicato dal Saggiatore. Costa troppo anche se è l’argomento della tesi che mi ha proposto il professor Bellante quando ho dato psicologia.

Esco contento, anche se con un lieve senso di colpa, dalla libreria. Come quando esci dal ristorante dopo aver ben mangiato e avverti quella gastritina un po’ fastidiosa. Ci fai poco caso, sei troppo sazio e troppo contento.

Decidiamo, all’unisono, di andare in via Montenapoleone, il salotto di Milano. Sasà ed io, lo scopriamo adesso, siamo vittime di quel sogno d’immorale agiatezza che è il film «Via Montenapoleone» dei Vanzina (se non erro).

Andiamo a cercare il luogo che incarna i nostri sogni di una vita agiata, “piacevole”, comodamente borghese.

Usciamo dalla Galleria, arriviamo davanti al Municipio e chiediamo al piantone di guardia di indicarci la strada. È vicina, ci assicura, pochi passi a piedi. Camminiamo ancora. Via Montenapoleone, leggo, eccoci. Sopra il nostro capo, una banderuola in legno coi caratteri in ottone. Entriamo nella via, esitanti, quasi in punta di piedi, come un musulmano in una moschea. Per strada c’è un set montato. Una modella si fa cogliere su una lussuosa auto. Le luci sparate, i flash, la gente che guarda senza troppa meraviglia: cose che succedono a Milano.

Cerchiamo i segni di un sogno visto, passivi, in seconda serata. Camminiamo un po’ delusi, le solite chiacchiere fra noi, un’occhiata vergognosa alle vetrine che espongono prezzi da mensile d’impiegato. Vedo una commessa in un negozio postmoderno di calzature. I suoi occhi sono specchi d’acqua, il volto è un ovale di madreperla, il corpo una silhouette che morbida si spiega verso il basso. S’accorge d’essere guardata, alza il suo sguardo verso di noi. Siamo dei ladri affamati di bellezza, fuggiamo.

Arriviamo alla fine della via. C’è un’altra targa uguale alla prima.

Non abbiamo ritrovato i nostri sogni, ma solo un’insultante, monotona ricchezza. Siamo dei fanatici che credono contro ogni evidenza, non si può abbandonare così un sogno covato per tanto tempo. Via Montenapoleone è per noi Milano. La “nostra” Milano. Camminiamo ancora. Siamo a piazza San Babila.

Vi sono in costruzione delle fontane avveniristiche. Mi fermo folgorato a guardarle. Mi perdo in quella esplosione di marmo grigio e bianco. Solidi geometrici, levigate forme deposte dal capriccio di un dio. Circondo la piazza con i miei passi. La imprigiono, la catturo con una ragnatela, una girandola di sguardi. È mia, la possiedo. In me le sue levigate bellezze. In me la sua aerea inconsistenza di marmo.

Un computer. Sasà si ferma a giocare.

Io sono ancora preso dalla visione, in me nasce adesso vergogna, sento la città che mi guarda. Lei lo sa che io sono un corpo estraneo al suo interno. Fra qualche ora, mi eietterà in una scheggia di ferro, con ruote pesanti di grasso e di strada.

Sasà si stanca subito del giochino. Riprendiamo a camminare. Propongo di andare a piedi alla stazione, sono le 20. Sasà è stanco, lo sono anche io. Torniamo a piazza Duomo.

In un angolo della piazza, c’è il Burgy, il Mc Donald’s dei poveri. Entriamo. Il locale è più sporco, le commesse più brutte e dai volti più stanchi, anche la clientela è meno piacevole, gli stranieri sono solo immigrati e non giovani con lo zaino. Compriamo quattro striminziti, asciutti hamburger. Usciamo.

Davanti a noi, fuori, gente seduta che mangia eccessive porzioni di riso, ancora fumante, in piatti di plastica, con forchette di plastica.

La città è splendida, sfolgorante di benessere, pulita. Questa gente puzza, ha una parlata strana (accenti del nostro Sud e di terre lontane, oltre il mare), la pelle scura, in mano come cibo la carità degli altri.

A Milano è facile diventare razzisti. Sono un cortigiano che cerca d’ingraziarsi questa città regina. I poveri, che altrove ho amato, qui mi danno fastidio.

Prendiamo la métro, ci smarriamo nei labirinti della città sotterranea. Sasà riesce a prendere la situazione in mano. Arriviamo alla stazione. Di sera è ancora più bella, i fari, le luci l’ammantano come veli. Preleviamo il bagaglio al deposito. Andiamo fuori.

A Milano, ci sono fontane per gli occhi e fontanelle d’acqua potabile. Mangiamo un po’ del nostro pasto frugale, fumiamo. Capisco solo ora perché in Albania la gente fumava tanto, è la fame, il fumo la fa passare un po’, solo un po’.

Siamo entrambi convinti che il nostro treno parta alle 21 e 45. Stanchi decidiamo di andare ad oziare dentro, sulle panchine. Scopriamo che sono le 21 e 05 e che il treno che ci serve parte alle 21 e 10. Corriamo e saliamo sul treno sbagliato. Non ci vogliono far scendere. Lo facciamo ugualmente mentre il convoglio comincia a muoversi. Si crea del panico per una sciocchezza. Due ferrovieri litigano per noi. Siamo a terra.

Il nostro treno è di fronte. Saliamo. Occupiamo in due uno scompartimento. Il treno per Palermo è semivuoto, nessuno vuole scendere al Sud. Diventiamo tristi. Torniamo a casa e il sogno si sfilaccia.

Ci facciamo, come due combattenti di ritorno dalla guerra, la promessa di continuare ad andare avanti, di lavorar sodo per scappare da Palermo, dal Sud e andare al Nord, a Milano, in quell’altra Italia che molti meridionali, prima di noi, hanno contribuito a costruire anch’essi con le loro braccia e la loro intelligenza.

Siamo insofferenti verso i nostri conterranei, razzisti. Parliamo. Le solite cose e l’amarezza… di essere alla periferia dell’Impero, dove nulla si muove e tutto è eterno, morto. Noi lo sappiamo, torniamo al Sud, alle stazioni vuote, alle facce note e spente, alle parlate dialettali, sonore e orgogliose, ottuse e cantilenanti. Torniamo come richiamati. Il treno procede, corre, troppo.

Il viaggio è monotono, solitario. Nessuno sale alle stazioni. Dormiamo sette ore di fila. Stiamo tornando a casa, noi che, in fondo, a casa cerchiamo di starci il meno possibile.

Si fa giorno, siamo al Sud, il vagone inizia a riempirsi. È gente solitaria, il volto scavato, scuro, triste, come noi.

Anche il sole è diverso. Torrido, violento, sa di fatica e di sudore. Il sole: unico signore sul deserto delle nostre speranze, sulle speranze della nostra gente, morte da secoli.

La sera prima ci ha colto un momento di disperata goliardia. Abbiamo selvaggiamente riso (e babbuinescamente) su alcuni versi indecenti scritti da una pia fanciulla di parrocchia che, «…inerte fiore fra le rocce…», chiedeva d’essere colta dal suo “lui”. Talvolta si è talmente stupidi da dire le cose più volgari senza nemmeno accorgersene. Abbiamo riso fino alle lacrime (cinicamente), liberamente sulla melma di pensiero, o di non-pensiero, o di pensiero molle, nella quale siamo nolentemente immersi. Aurea mediocrità, regola d’oro di questi arroganti profeti del nulla. Le parrocchie sono sentine e postriboli insieme, campi dove si coltiva la stupidità e l’idiozia generosa cresce spontanea. Luoghi di pseudo-misticismo e para-psicologismo deteriore che serve a giustificare una umanità senza spina dorsale né anima. Luoghi lumeggiati da costanti grigiori meridiani e, nell’incertezza dei contorni, ogni compromesso, di ogni tipo, si compie.

E noi, noi sì colpevoli, anche, di non gridare alto lo sdegno. Noi a recitare benevolenza con intima, lancinante vergogna. Noi taciturni e sconfitti, folli sognatori.

È giorno inoltrato, le ore passano lente.

Di tanto in tanto qualche momento di sonno ci coglie. Siamo svuotati, pieni di noia, di stanchezza, delusi, amareggiati. Sasà ha un volto tirato, triste. Neanche i conti fatti la sera prima lo hanno risollevato. Ha diviso tutto, sino all’ultima lira. Ha conservato tutti gli scontrini, anche quello del caffè che mi ha “offerto” ad Abano. Adesso, anche io ho “visto e creduto”: Sasà è un “corazziere” di razza.

Il treno è in ritardo, sono le 17 e 15, siamo a Palermo, a casa.

Elio, il padre di Sasà, muto e solitario, piantato come una lancia sulla banchina della stazione, ci aspetta. Mi accompagna a casa. Salgo le scale, entro, ho le chiavi, poso lo zaino, mi faccio una doccia e mi corico.

Sempre così i miei rientri: silenziosi e solitari.

Dormo tredici ore di fila. Al risveglio, tutta la stanchezza dell’incidente, del viaggio, delle interminabili camminate e solo un desiderio, come un obelisco che si erge superstite di una città in macerie, un pensiero: voglio tornare a viaggiare, tornare a Milano, continuare a sognare e lavorare per una vita normale.

¿ FINIS ?

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1 È uno dei misteri di Milano il fatto che due persone che si conoscano, alla stessa ora, sulla stessa piazza, non riescano a vedersi.

2 Maudit = maledetto (fr)





4. La buriana

Perché se tu non ti occupi di politica

è la politica a occuparsi sempre di te, purtroppo



“Un sano ricordo dell’infanzia

è forse l’educazione migliore”

(Fedor Michailovic Dostoevskij)



«Perché devo far suonare questo coso di legno?».

Pensava Giacomino, fissando con assai poca benevolenza il suo violino. Eppure sembrava che stesse proprio lì fermo, ansioso di venire ghermito dalle mani candide di quel bambino per modulare dubbie melodie che avrebbero allietato i noiosi meriggi materni – eh sì, la noia dei ricchi poverini – e accresciuto, davanti a Dio, di meriti i tolleranti vicini e i famigli.

Sua madre insisteva:

- Il mio Giacomino deve saper suonare almeno uno strumento: è una irrinunciabile tradizione

di famiglia.

Ed ogni volta che lo ripeteva pronunziava le parole con studiata lentezza, come per assaporarle una per una. Poi taceva lungamente e lasciava così ai suoi fortuiti interlocutori il tempo di meditare selle grandi verità che aveva loro dispensato con tanta generosità. O almeno così lei credeva.

Schiacciato, quindi, dal peso della tradizione, Giacomino dovette rassegnarsi a scegliere fra i quattro strumenti di famiglia: il pianoforte del babbo, l’arpa della mamma, il violino della sorella Diana e il trombone del nonno.

E pensando, ingenuamente, che far suonare un “coso” più piccolo fosse più facile, secondo un ben noto principio scientifico che non poteva ignorare, optò con forzato entusiasmo, per il violino della sorella.

Qualche giorno dopo, seguendo tacitamente l’austera, quasi leopardiana, madre, si presentò, con la giacchetta della domenica, i calzoni corti e le scarpe lucide dal celeberrimo maestro Libero Toscanello.

- Il migliore del momento, cara -, aveva asserito languidamente ma con fermezza un’amica materna.

- Ecco il nostro, ehm, aspirante, ehm ehm, violinista – disse il maestro sfoderando uno dei suoi bei sorrisi di circostanza – bene… bene… be… ne! – concluse flettendosi velocemente sulle ginocchia con le braccia in avanti.

Poi si fermò assorto e perplesso a studiare l’infante.

Giacomino mortificato teneva gli occhi bassi inseguendo i bizzarri disegni delle maioliche del piancito.

- Io penso – riprese il maestro riemergendo dalla sua diurna meditazione -. Sì, io dunque

penso che… - indugiò – solo per cominciare, ehm, due orettine giornaliere potrebbero, ehm, essere bastevoli, in seguito, ehm, se il ragazzo mostrerà buona volontà, ehm ehm, si potrebbe anche arrivare a… -

Giacomino lo guardava implorante pendendo dalle sue labbra carnose e umide.

- A… - riprese sospendendo la voce -, ma sì, anche volendo a tre o quattro orettine o più al giorno, esclusi gli esercizi da fare a casa, naturalmente, ehm ehm ehm.

Giacomino ebbe un tonfo al cuore, la vita gli sembrava uno scherzo crudele e di cattivo gusto perpetrato da un giocatore di dadi ubriaco, la madre la perfida strega delle favole che la balia gli leggeva ancora, il maestro l’orribile orco che voleva divorare Pollicino. Girava nervosamente gli occhi intorno e tendeva le orecchie per udire le grida soffocate di bambini rapiti costretti a suonare di continuo enormi strumenti musicali. Era nello stesso tempo però anche sicuro che la bella fatina dai capelli turchini, che gli veniva ogni notte in sogno, lo avrebbe magicamente soccorso.

Ma in quel momento Giacomino ebbe solo la forza di sibilare un «Sì, va bene» che nessuno udì, neppure l’angelo sentiva sempre accanto e che pure pregava ogni sera.

Ed ora, fra l’incontenibile orgogliosa gioia della madre, la benevola indifferenza paterna, l’ostentata ammirazione della amiche materne e la ben retribuita pazienza del maestro Libero Toscanello, il nostro involontario eroe si trovava nella sua spaziosa e silenziosa casa, durante uno degli ultimi meriggi d’estate, davanti a quel “coso” ligneo, mirando ora la campagna che esplodeva fuori della finestra di casa, ora quello strumento di pena che era stato costretto a scegliersi.

Che fare? Eterna domanda d’ogni animo inquieto e di Cernyseskij in particolare.

La campagna o il violino? Obbbedienza-sofferenza o ribellione-gioia? Il dovere o il piacere? La Kultur o la Zivilisation? Accettare millenni di soprusi padronali e borghesi ipocrisie o con un coraggioso atto sovvertire l’ordine della storia e marciare verso il sole dell’avvenire?

Dopo essersi sprofondato negli abissi della sua tumultuosa coscienza, cercando una luce che lo orientasse nel difficile scelta, a seguito un profondo e sudato travaglio, intravide un timido bagliore e si decise a seguire ciò che una voce interiore sembrava prepotentemente dettargli. (1)

Chiamò allora i suoi compagni di gioco, infilò nello zaino di juta con rabbia il violino insieme a pane raffermo e formaggio olandese e, assaporando la gioia purissima che viene sempre dalla libertà conquistata, si diresse correndo verso i fitti boschi poco distanti dalla paterna magione.

E siccome sua madre gli aveva ripetuto, sino alla nausea, che un giorno quell’odiato violino gli sarebbe tornato assai utile. Verso sera, avvertendo l’umidità pungente della notte che s’avanzava, con gesto solenne e fiero, afferrò l’odiato strumento e lo gettò nel fuoco per scaldarsi.

Il legno era ben stagionato e una bella fiamma si alzò ad illuminare il suo volto ormai disteso e sorridente.

Nello stesso tempo, note di violino si librarono dalle fiamme riempiendo le solitudini montane di armonie musicali così meravigliose che mano d’uomo non avrebbe potuto mai produrre.

(1) L’interessante caso la riflessione e la discussione di alcuni dei più grandi moralisti e opinionisti del nostro tempo. Articoli e saggi, a nostro avviso assai interessanti, sono stati pubblicati dal noto cardinale Dionigio Testemassi sulla rivista di teologia morale “Casi di coscienza e di libertà”.

Lo stesso cardinal non più papabile, sempre fecondo, ha pure sull’argomento scritto il libro “Lo strano caso di Giacomino e del suo violino con piacevoli riflessioni sulla bontà dell’attuale governo che ha garantito e garantisce libertà e benessere a tutti gli uomini di buona volontà anche se comunisti”, Edizioni dello Ior.

L’audace pubblicazione teologica, per le tesi contenutevi giudicate non abbastanza allineate con l’odierno sentire del segretario particolare dell’attuale pontefice, ha suscitato la pronta e rispettosa risposta – ma nel frattempo il cardinal non più papabile è stato in via cautelare retrocesso sine die al rango di vice-parroco in prova a Camerlate Basso – dell’eminentissimo e reverendissimo cardinalissimo Franzis Joseph Scott Ratzingerald che, a quattro mani con un’agenzia di consulenza d’immagine, ha stilato un significativo ed essenziale documento di 600 pagine dal titolo “Contra omnes haereticos in Ecclesiae Dei qui scripserunt de casu Jacomini et violini eius”.

Che ha ricevuto l’immediato plauso dell’episcopato mondiale, anche se la reazione più accetta è stata in vaticano quella del cardinal mai papabile Salvatore Dei Giorni il quale ha entusiasticamente esclamato: «Ci voleva questa cosa sui violini! Il papa ha sempre ragione! Di papa ce n’è uno solo!». Ma la durezza delle accuse contenute nell’importante documento hanno spinto il cardinal non più papabile a lasciare il sacerdozio, la Chiesa e, cosa assai sintomatica, ad interrompere al “Messaggero der sor Antonio” del quale era “abbonato sostenitore benemerito”, a smettere di fumare e a convolare a nozze con la sua donna delle pulizie che, ha confessato, concupiva da tempo ocularmente.

Ad un giornalista, prima di far perdere le sue tracce, ha dichiarato: «Ci ho messo quarant’anni a diventare cardinal papabile e questo Ratzingerald di cardinale qua mi retrocede di botto. Sapesse i rospi che ho dovuto baciare. Basta, tento la fortuna in un altro campo: con la Chiesa mi è andata male».

Naturalmente questo gesto ha suscitato la pronta esecrazione di tutto l’episcopato mondiale e l’addolorata dichiarazione del solito cardinal mai papabile Dei Giorni: «Fare questo al papa… Che cattivo, io non l’avrei mai fatto. Io voglio bene al papa e vorrei sempre stare con lui in Vaticano, magari a gare il vice-papa».

Infine, una nota del portavoce della Santa Sede il dottor Navarco y Allé Allé ha chiuso d’autorità la polemica: «Adesso zitti tutti. Il papa vuole riposare un po’».

Ma la discussione sviluppatasi ha coinvolto per diversi giorni tutto il Paese e ha suscitato pure un ampio dibattito parlamentare. Il Presidente del Consiglio, in qualità di “unto”, è stato quindi invitato dalla sua maggioranza a riferire alle Camere in diretta Tv a reti unificate.

In un discorso, a detta dei suoi portaborse alle Camere, «oggettivamente assai ispirato e molto molto molto alto», il capo dell’esecutivo, dopo avere ricordato le oggettive colpe del precedente regime collettivista, pur se fra le esagerate proteste dei due membri dell’opposizione, ha invitato ufficialmente a nome e a spese del governo il papa a passare un fine settimana con lui in una sua villa a sua scelta.

L’intervento dell’Unto, come ormai tutti nel Paese lo chiamano, è stato unanimemente giudicato da tutte le componenti della maggioranza «bello», «molto bello» e «bello bello bello!».

La fine del discorso, recitato senza far vedere che leggeva e cercando di dare un certo senso alle parole, come ha giustamente commentato un grande professionista della comunicazione Emidio Fede, è stata infatti salutata da uno scrosciante applauso durato ben cinque ore da parte di tutte e due le Camere, del gabinetto del custode, del giornalaio lì vicino – che per mantenersi neutrale vende solo giornaletti porno non schierati – e di un carabiniere che si è posto subito sull’attenti con

supremo sprezzo d’ogni probabile pericolo da parte delle milizie bolsceviche e si è prontamente portato la mano alla visiera per parare uno spunto dei soliti terroristi del sindacato.

Gli efficientissimi servizi segreti “ammerikkani” – come li chiamano le false modelle russe della nuova intelligence russo-cinese che abitano con loro – dopo aver seguito la diretta televisiva, hanno segretamente informato con un fax il governo.

Il presidente Usa, data l’imminenza della sua ricandidatura alla Casetta del Burino Bianco (come si chiama ormai la storica residenza dopo aver accettato, per problemi di cassa, uno sponsor ciociaro di latticini), prendendo spunto dal pericolo rappresentato dalle mafie mondiali per le democrazie denunciato dal suo amico e omologo italiano, ha annunciato in mondovisione il bombardamento della Sicilia, «allo scopo – ha dichiarato – di sconfiggere Cosa nostra e tutte le sue filiazioni e affiliazioni politiche etc.».

Il governo italiano, come da protocollo, si è prontamente schierato con l’alleato e amico americano. Il governatore dell'Isola, invece, ha subito organizzato un pellegrinaggio di tutto l’esecutivo regionale al santuario della "Bedda Matri, sarvaci Tu!"

Il comando americano ha anche fatto sapere che l’intera operazione militare verrà sponsorizzata dalle patatine “Frigg” e dalla “Cola Cola”. Spot pubblicitari interromperanno, quindi, a intervalli regolari i bombardamenti aerei.



5. Madame Regina



«False prophets will arise and provide great

signs and portents, enough to deceive even elect,

if that were possible. Look! I have given you warning»

(a certain Jesus Nazirite)



«Let the astrologers come forward now and save you,

the star-gazers who announce month by month

wath will happen to you next»

(Isaiah Prophet)



Dopo ripetuti assalti, Madame Regina, cartomante, sferomante, parapsicologa metaspirituale, che prende ap­puntamento col 166 (già 144), mi concede un’inter­vista più che esclusiva. Una voce calda, mielata, quasi surreale mi comunica l’indirizzo al quale m’attende un solerte portiere.

Muto come la crudele Sfinge, e forse ancor più brutto e felino, mi digita, con studiata lentezza, il numero sull’untuosa tastiera e mi indica una solitaria cabina coibentata. La voce mi trema.

– Chi è? – gracchia una voce stridula e strascicata.

– Sono il… ehm… giornalista per l’intervista. Ricorda? – rispondo quasi soffocando.

– Ah, sì, salisse! Ottavo piano attico! – riprende.

– Subito – dico mentre sudo e cerco di trattenere la cornetta con tutte e due le mani sudate.

Esco velocemente e il portiere, sempre più felino e brutto, mi blocca imperioso con un bastone di scopa.

– Dove va? – m’interroga –. Sono dieci euro: Madame Regina ci ha il citofono a scatti.

– Glieli do non appena scendo – mi tocco la tasca e mi accorgo che ho solo un euro per il ritorno in autobus.

– No, ora!

– Si fidi – lo prego –, glieli do dopo.

– Io sono qui fino a ‘stasera e c’è solo un’uscita: questa! – mi urla piantandomi addosso i suoi occhi bovini.

– Posso prendere l’ascensore? – chiedo timidamente.

– No! – mi alita in faccia –. Lei, anzi, tu non hai pagato. E quindi: ottavo piano a piedi!

Non oso rispondere e, silenzioso come agnello al macel condotto, mi avvio mesto per le scale. Arrivo, infine.

Una targa d’ottone, lucida, quasi abbagliante, m’accoglie gelida. Recita:



Madame Regina Stella
Cartomante – Sferomante – Geomante
Videomante – Radiomante – Grafomante

Parapissicologa Metaspirituale

Dottoressa in Prano-post-ipo-terapia Metacorporale

Ambasciatrice Spirituale Unica Autorizzata

di San Giovanni Rotondo

Assessore Regionale Honoris Causa

alla consulenza e preveggenza finanziaria

Libera Docente dell’Università Libera “Du Capu”

Gran Croce Uncinata dell’Ordine Equestre

Monrealese di San Khassis

Gran Sacerdotessa Associata della Loggia

Meridionale distaccata e semicoperta della Bruschetta





I titoli sono veramente tanti, alla fine, quasi a terra, chiude il tutto un gigantesco “ETC” in caratteri gotici.

Premo un vistoso e imbarazzante pomo argenteo e all’interno si sente esplodere un concerto di campane, forse Brahms. Alla fine del secondo movimento, un adagio un poco mosso ma con brio, la porta ruota su se stessa e mi appare innanzi spettrale, ferale, un maggiordomo in spezzato e camicia rosa. Il tutto è completato da una selva di ispidi peli che fuoriesce incolta dalla camicia e che gli adorna il volto come una sciarpa.

– Madame ti aspetta – mi dice con malcelato sussiego.

– Grazie – rispondo chinando istintivamente il capo (generazioni di schiavi, servi, domestici, barboni, sudditi di ogni risma, operai mi accompagnano benigni e tristi in quell’usuale gesto. Siamo una lunga genia abituata a dire solo di sì).

Lo seguo e vengo introdotto in una stanza dove, dietro un’enorme scrivania rosso fuoco, sotto una lattea benedizione papale, siede lei: Madame Regina Stella.

Alla sua destra, una statua d’argento a grandezza quasi innaturale di Padre Pio da Pietralcina. Alla sinistra, un Sacro Cuore di Gesù in gesso bianco che sanguina e lacrima insieme di continuo, ai piedi della statua, una vaschetta che raccoglie i due liquidi separatamente e che li mette nuovamente in circolo. Da dietro la statua spunta un cartellino: Made in Vatican.

Cerca di mettermi a mio agio:

– Che vuoi? Ho cinque minutini. Anzi, un attimino.

– Io volevo – esordisco –, visto che il giornale d’estate ha più spazio perché i redattori sono in vacanza e, cioè, siccome se non porto nulla d’importante mi mandano via, anche se collaboro diciamo gratis da sei anni e non ho ancora preso un euro… Insomma, io volevo chiederti…

La pranomediatica si produce in un mirabile attacco di tosse canina.

– …cioè: chiederle… – mi correggo ormai avvertito.

Allarga un sorriso sino alle orecchie come la moglie di un presidente americano.

– …se potessi – continuo – sapere, ecco, visto che adesso il Palermo se lo sono comprato quelli coi soldi e che la gente vuole saperne di più, ecco… vorrei sapere qualcosa sul futuro, in pratica, sulla nuova stagione di calcio…

Mi fissa per un credo e poi tira fuori un bisunto mazzo di carte variopinte da un cassetto nascosto sotto il tavolo. Le dispone per lungo, ne estrae una dal mazzo e mi guarda sorniona negli occhi, arrossisco.

– Ti do una notizia che a te ti fanno un monumento nel giornale se te la pubblichi – mi dice mostrandomi un’aquila imperiale che divora uno scudo bianco-celeste.

– Il prossimo anno – continua ispirata – il Palermo va nella serie A e può molto darsi che ci vince pure lo scudetto e la coppa – conclude tronfia.

Si alza dalla poltrona di ghepardo, aggira sinuosamente il tavolo, mi ghermisce con un braccio, mi poggia lieve una mano inanellata sull’omero e mi solletica un orecchio: – Scrivitelo, sennò te lo scordi.

Senza neppure ringraziarla, inebriato dallo scoop, volo verso la porta, mi precipito giù per le scale, dribblo agilmente l’irato portiere, ancora più brutto e felino, oltre che ormai definitivamente bovino, mi ritrovo in strada e penso di avere in mano il notizione dell’anno. Sono felice, anche un po’ contento.

Salgo sull’autobus e mi accorgo solo ora che Madame, forse mentre mi accompagnava alla porta, mi ha sfilato il portafogli dalla tasca. Per discrezione, penso, ha voluto ripagarsi da sola. Scendo e faccio i due chilometri di strada che mi separano dal giornale a piedi.

È la stampa bellezza, avrebbe detto il giornalista Humphrey Bogart.



Ps: vivamente e volentieri consiglio il volume di Sasà Insignati, “Questo nostro meraviglioso Palermo. Ricordi, pensieri e auguri”, Edizioni Palla & Piede, Palermo-Viale del Fante 2003.





6. Le raccomandazioni, come gli esami,
non finiscono mai



- Pronto?

- Sì.

- Casa Vattelapesca?

- Desidera?

- Lei è la professoressa Tal dei Tali che insegna nella classe X della scuola Y?

- Certo -, risponde quasi fiera la ragazza.

- Mi scusi se la disturbo, io sono la nipote del collega di suo padre…»

La giovane insegnante, che fino adesso ha mantenuto un espressione quasi di disturbata indifferenza, cominciando ad intuire il motivo della conversazione, aggrotta lievemente le sopracciglia, imposta il tono della voce e comincia giocherellare nervosamente col filo del telefono.

- Suo padre – dice l’altra - le avrà sicuramente parlato del signor Caio. Tutti lo chiamavano il “dottore del brodo” perché parlava sempre e, dicevano, si dava delle arie, si sentiva un professorone. Si ricorda?

- Veramente no -, mente.

- Ma come… se ogni volta timbrava per suo padre in ufficio il cartellino quando lui la accompagnava a scuola o usciva prima perché lei stava male. Quanti caffè non gli ha offerto e quanti favori non gli ha fatto. Una volta gli ha pure prestato dei soldi perché lei doveva andare a fare il viaggio d’istruzione a Vienna. Si ricorda adesso?

Quasi umiliata cede:

- Mi sembra di sì, adesso.

- Senta, io ho un figlio, Z, che quest’anno ha fatto il salto nella scuola dove lavora lei, cioè ha recuperato tre anni e ora si presenta per la maturità. Lei lo sa che non è un tipo molto studioso. Infatti, l’ha pure sospeso una volta.

La ragazza a poco a poco scivola nel suo ruolo di docente:

- Suo figlio, che ricordo benissimo, non l’ho sospeso perché s’impegnava poco ma perché è un gran maleducato. Una volta...

- Semmai ineducato – la interrompe -. Ma adesso che va a pensare – dice la donna che non ha interesse a che la giovane professoressa s’innervosisca -, ormai la scuola è finita, acqua passata. Allora, gliela fa questa carezza a mio figlio? Gliela mette qualche buona parola e magari lo aiuta quando fa il compito? Magari può dire agli altri insegnati che è suo cugino così gli fanno le domande facili.

La ragazza freme d’indignazione:

- Signora, io mi sono iscritta alla facoltà di giurisprudenza a diciassette anni, mi sono laureata a ventidue col massimo dei voti e non ho mai telefonato a nessuno per farmi raccomandare. Ha capito? Io queste cose non le faccio. Si vergogni.

- Capisco che magari non è abituata, ci pensi, però. Poi, magari, le facciamo un regalino -, fa l’altra conciliante con tono quasi materno.

- Ci ho già pensato - dice brusca la ragazza e riattacca.

La sera, avvolta dal fumo della minestra, ne parla a tavola. Racconta la telefonata, la mamma le da, naturalmente, ragione:

- Ma la gente non ha proprio dignità commenta –

Il fratello, che è di maturità, la guarda in tralice, ma quel che pensa non si può riferire, e il padre, chino sul piatto, sembra quasi non ascoltarla.

La giovane docente si produce allora in una riflessione ad alta voce sul pericolo che una mentalità di questo tipo, che definisce clientelare, inquini la vita delle istituzioni e della società. Insomma, fa quasi un arringa su «questo cancro che rischia di uccidere la vita democratica del nostro Paese».

Il padre, non appena lei termina, alza lo sguardo, si aggiusta gli occhiali, la fissa e sbotta:

- Ma secondo te, se non era per l’onorevole della Dc che ci metteva una buona parola e mi faceva vincere il concorso, noi questa sera che ci mangiavamo?! E, per questo, tu vuoi punire quel povero ragazzo?

Si alza e, in segno di protesta, se ne va in esilio in cucina a mangiare col cane.